“Madri di guerra”, L’universalità del dolore materno al capezzale della figlia

Al centro della scena un letto bianco dalle bianche lenzuola. Equidistanti, nel pieno rispetto delle geometrie, arredamenti essenziali, bianchi anch’essi. Scortata dalle luci, in crescendo su di lei, una giovane donna in abito nuziale che si adagia sul letto e lì, defunta, giace. La madre al suo capezzale, a piangerla. 

Il quadro è malinconico e delicato insieme. Da esso prende le mosse “Madri di guerra”, scritto, diretto e interpretato da Antonella Caldarella, che si è mossa sul terreno della morte e del dolore con l’afflato di una madre qualunque, pur partendo dalla storia di Maria Grazia Cutuli, la giornalista assassinata in Afghanistan nel 2001, quando aveva da poco compiuto trentanove anni. 

Una donna forte, testarda, che aveva presto lasciato Catania per inseguire il sogno di raccontare la verità. Una figlia mai stata madre. Un angelo cui aggrapparsi quando esplode la disperazione di Agata, alla quale, ora che il corpo di Maria Grazia giace, restano un mucchio di domande senza risposta. 

Spetta insomma alla figlia, interpretata da una Valeria La Bua cui abbonda il candore e difettano in troppi passaggi la forza e la tecnica necessarie per imprimere spessore al personaggio, restituire alla madre quella parvenza di sorriso grazie alla quale sopravvivere. Ché di sopravvivenza si tratta. Ché una madre dovrebbe andare al matrimonio della figlia, non al suo funerale. 

E in un dialogo dal ritmo lento e che poco affonda le mani nel dolore, per rimestarlo, si dipana la storia di due vite e di tutte le vite delle donne, che siano madri e figlie, che siano solo figlie o che desiderino essere madri. 

Maria Grazia non sa come cullare il bambolotto che la madre ha custodito mentre lei cresceva, ma conosce la violenza della guerra. E ha appreso gli orrori di un mondo declinato dalle etnie. 

Ora tutti piangono Maria Grazia, in questa terra di falsità e ipocrisia dove fino a poco tempo fa si disconosceva il suo operato. 

La madre inchioda Dio, gli attribuisce la colpa di lasciar morire le persone buone. 

Restano i ricordi, resta una fanciulla indelebile nel cuore di chi l’ha amata. E resta la stanchezza, il bisogno di riposare. Per poco o per sempre. 

Pregevole senz’altro l’idea che soggiace alla scrittura. Occorreva semmai imprimerle una forza dirompente sulla scena. Non si comprende, infatti, perché sorvegliare tanto, talora mantenendo un basso profilo, l’interpretazione delle due attrici. Quasi a volerne imbavagliare il dolore. Ciononostante “Madri di guerra”, impreziosito dalle musiche di Andrea Cable e letteralmente sostenuto dalle scene di Emanuele Salamanca, riesce a discostarsi da una vita e ad allargare il campo su tutte le esistenze segnate dal dolore. Perché si è sempre in guerra. Perché ciascuno combatte ogni giorno la propria guerra personale, per sopravvivere. 

Ultimo appuntamento di gennaio al teatro Dei 3 Mestieri.

Ennesima miglioria per gli spazi già confortevoli di via Roccamotore l’ingresso al pubblico direttamente dalla Strada Statale, che potrebbe essere usufruibile già l’8 febbraio, in occasione dell’attesissimo “Dr Jekill e Mr Hyde” di e con Fabrizio Paladin. 

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