La brutalità occultata sotto la coltre del circo, dal testo di Mrożek alla regia di Bonaventura

Uno di quei testi senza tempo, sempre attuali, che corrono sul filo dell’assurdo ma attingono a piene mani dalla realtà

Ieri al teatro Dei 3 Mestieri, all’interno della rassegna “Tracce d’inchiostro”, la prima nazionale dello spettacolo “In alto mare”, prodotto da Nutrimenti Terrestri e Castello di Sancio.

Il regista messinese Roberto Zorn Bonaventura sceglie di mettere in scena il testo che il drammaturgo polacco Sławomir Mrożek ha scritto nel 1961. Uno di quei testi senza tempo, sempre attuali, che corrono sul filo dell’assurdo e pur tuttavia attingono a piene mani dalla realtà, cogliendone in egual misura le distorsioni parodistiche e la disumana ferocia.

La zattera ove in un unico atto si compie il dramma dei tre naufraghi assurge, insomma, a metafora del mondo dentro al quale convulsamente si agitano gli individui, pungolati dall’unico primordiale e insopprimibile bisogno: salvarsi.

Sfumano pertanto i contorni della Polonia costretta al giogo del comunismo sovietico, sfuma l’hic et nunc cui non sottostanno autori del calibro di Mrożek, il teatro dei quali ricalca senza indugio la tragedia ubiqua e perpetua del vivere.

Sarebbe stato un azzardo rileggere il testo di Mrożek sulla scorta di categorie estetiche personali e dissimili rispetto a quelle dentro cui è stato concepito. L’universo fisico che le parole del drammaturgo polacco eleggono a dimora ufficiale è di fatto già apparecchiato dalle indicazioni alle quali non sarebbe né opportuno né proficuo in termini di scrittura scenica sottrarsi. Il processo creativo, a livello registico, di Roberto Zorn Bonaventura si astiene infatti da una rilettura del testo che esuli dalle prescrizioni dell’autore. Le sue scelte stilistiche si muovono piuttosto nell’ambito di una direzione degli attori che possa ricavare il maggior utile dalle caratteristiche personali di ciascuno, della scelta di soluzioni e materiali non autonomi rispetto alla scrittura drammaturgica, ma senz’altro evidente indizio di una precisa e peculiare cifra stilistica.

Un cast alquanto composito quello a disposizione di Bonaventura. Ché composite, quantunque accomunate dal condiviso istinto di sopravvivenza, erano del resto i naufraghi sulla zattera. Ragionevole dunque giocare sull’amplificazione delle peculiarità attoriali a vantaggio della costruzione dei personaggi.

Così che Francesco Natoli abbia vestito perfettamente i panni del “medio”, gustoso demagogo in grado di sfoderare all’occorrenza presunte doti culinarie e apparentarsi come meglio conviene. Così che a Michelangelo Maria Zanghì, dalle linee meno morbide, siano opportunamente spettate le spigolosità del “grande” al quale si ascrivono i tratti caratteristici degli ambienti benestanti. La facies del leader e gli occhi a trasudare distacco ed egocentrismo smodati. Così che Gianfranco Quero, il “piccolo”, abbia potuto con grande garbo interpretare il ruolo dai tratti più spiccatamente realistici della pièce, quello dell’umanità vera, dell’umanità che si consegna al nemico in nome di una libertà che passa attraverso il proprio consenso interiore all’altrui violenza, la rivendicazione della personale volontà, il sacrificio, le più nobili aspirazioni.

E lì, al ritmo dell’umano carillon cui le contingenze hanno dato la carica, mentre posate e stoviglie rumoreggiano suicide al cospetto dei famelici commensali, si apparecchia il banchetto feroce dell’umanità.

Giulia De Luca, oltre a declamare le linee programmatiche della drammaturgia di Mrożek, sulle note di “In alto mare” di Loredana Bertè (godibile tocco pop nell’impianto registico di Bonaventura), è stata un postino e un vecchio servitore inappuntabile. Entro quelle acque circoscritte dalle luci che, passando dal blu ai toni più caldi, delimitavano pure i confini asfittici e claustrofobici della zattera, Giulia De Luca ha scombussolato qualche piano, sparso scomode verità con una verve idonea al sostegno di tutto l’apparato teatrale.

Dagli abiti eleganti agli oggetti di scena, dai movimenti geometrici degli attori all’avvicendamento sulle poltrone che di volta in volta li accoglievano, tutto l’impianto concepito da Bonaventura sembrava occultare la brutalità sotto la coltre del circo dentro al quale finanche l’uomo, il più brutale degli uomini, è relegato al ruolo, caricaturale quanto si vuole, di clown. E qui s’arresta l’assurdo, qui comincia la realtà. Nessun intento morale, nessun biasimo dell’agire umano. Una vignetta satirica piuttosto, un’istantanea sull’umanità, la più cruda sintesi della verità nel luogo per eccellenza deputato alla finzione: il teatro.

Mentre sui titoli di coda del dramma sfilavano i postulati di Mrożek ai quali il lavoro di Bonaventura si è coscientemente arreso, eludendo le tortuosità degli eccessi come pure, e ancor più, l’ineleganza della forma correlativo oggettivo del pensiero.

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