Dentro ai perimetri del genere, il salto di qualità nello stile del messinese Gerardo Rizzo

Era quella, prima del terremoto del 1908, la Messina della Palazzata, della chiesa di San Gregorio

A un anno di distanza dal romanzo “La fata e la lupa”, Gerardo Rizzo ci regala una nuova indagine del delegato di Pubblica Sicurezza Edoardo Baldassa, veneto, alle prese con i chiaroscuri d’una Messina di fine Ottocento che l’autore, con la perizia e la meticolosità dello storico, affresca per il tramite della scrittura.

Un’operazione complessa che richiede, dentro ai perimetri del genere, il dosaggio esatto di ogni elemento e l’altrettanto esatta miscelazione. Il risultato è ben individuabile in questo gioiello narrativo che è “L’angelo della Croce d’Oro” (Di Nicolò edizioni) e del quale, in tempi di rotative sempre all’opera, se ne apprezza e rimarca lo stile. È il salto di qualità, nel panorama affollato della letteratura di genere, che compie l’autore nel prediligere una particolare e riconoscibile cifra stilistica: la prosa è rapida, cristallina; la lingua è elegante, trova il suo punto di forza nella misura, ben districandosi tra la complessità di un italiano che si declina non tanto geograficamente, quanto a livello sociale. Così che, senza alcuna forzatura e lungi dal cavalcare l’onda macchiettistica del dialetto, l’autore possa da una parte restituire dignità a questa lingua passata al setaccio nei secoli e imbarbarita dai prestiti, dall’altra riuscire comunque ad adattarla a ciascun personaggio, confezionando quell’abito su misura che ne svela nature, temperamenti, non di rado intenzioni.

Lo stile di Gerardo Rizzo, che dà ulteriore prova di grande versatilità e destrezza, non solo, dunque, si pone al servizio della struttura narrativa, ma ne costituisce pure il caposaldo. Ed è proprio tra gli interstizi delle parole, disposte secondo un preciso ordine geometrico, che si ravvisano impercettibili segni, probabili indizi, più o meno volontari depistaggi.

“L’angelo della Croce d’Oro”, dentro cui si indaga sull’omicidio dell’integerrimo e caritatevole ingegnere Enrico Puglisi, apre il sipario sul rientro a Messina di Edoardo Baldassa, dopo una licenza di qualche settimana a Castelfranco Veneto.

Il viaggio di rientro è stato massacrante e, al netto degli indubbi progressi nell’ambito dei trasporti, ci è inevitabile ravvisarne le similarità col presente. Ciononostante lo scenario che si dispiega innanzi ai suoi occhi all’ingresso della nave nello Stretto ripaga il delegato d’ogni fatica e gli restituisce, d’emblée, quella porzione di isola che un tempo era stato confino e che poi, pian piano, era diventato casa.

È chiaro che Baldassa di Messina abbia dovuto imparare a padroneggiarne i codici, a intravederne le vere sembianze tra le giustapposizioni di luce e ombre, ma quest’uomo possiede la dote straordinaria dell’apertura. Tra gli spigoli, i difetti, la più elegante e amabile dissolutezza, Baldassa lascia trapelare un animo disposto ad accogliere il nuovo, volesse dire finanche consegnarvisi. Come davanti a una crostata con la ricotta, a un piatto di maccheroni al sugo o al profumo da svenirne delle cotiche di maiale.

Nessun pregiudizio, insomma. Nessuna resistenza alle abitudini, alla scansione del tempo, al carattere sventatamente contraddittorio di una città che vive un momento di profonda crisi economica e che pure e a maggior ragione si appresta ai preparativi del carnevale.

Sfilano un gran numero di personaggi, ciascuno discernibile per merito delle eloquenti pennellate dell’autore. Ai volti familiari, come il baronello Giuseppe Arenaprimo, il sindacalista Nicola Petrina, il Ghiugghiu dentro alla sua osteria o l’applicato Giovanni Rinaldi fido collaboratore, dalla prima alla seconda indagine di Baldassa, se ne aggiungono di nuovi. Si tratti dell’inchiesta centrale, delle incursioni nei bassifondi per risolvere questioni parallele o della splendida ricognizione in questa città che è protagonista, anima del racconto, persino metafora d’un mondo che ogni luogo contiene, pure Castelfranco Veneto, tutti i soggetti chiamati in causa da Rizzo ricoprono un ruolo determinante nell’economia della storia.

Era quella, prima del terremoto del 1908, la Messina della Palazzata, della chiesa di San Gregorio, dei teatri e delle piazze ove brulicava vita, ove si incrociavano uomini, si confondevano culture, si guardava al mare e ci si perdeva nella sua infinitezza.

Non v’è malinconia e la solida trama che l’autore imbastisce mai si perderebbe tra i rivoli dei rimpianti d’un tempo seppellito dalle macerie. Tutto ubbidisce pertanto alla misura, tutto si consegna alla scrittura nella consapevolezza di poter occupare uno spazio e non un altro, tutto deve prestarsi all’audace progetto di percorrere la via maestra del giallo e muovere gli occhi alternativamente a destra e a sinistra per cogliere lo scenario che si staglia oltre il bordo della strada e che è quella Messina alla quale Gerardo Rizzo, con il rigore dello storico e l’indulgenza e la severità cui solo un profondo amore verso la propria terra può indurre, si dedica da una vita intera.

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