Delle blatte e dell’uomo che vorrebbe debellarle, il monologo di Gerri Cucinotta

Nell’ambito del progetto Quartieri in scena, la rassegna di quattro proposte di sperimentazioni teatrali “Impromptu” negli spazi del Retronouveau di via Croce Rossa a Messina. A promuoverla l’Associazione culturale Scimone-Sframeli, in partenariato con l’Associazione culturale Castello di Sancio. La direzione artistica è di Roberto Zorn Bonaventura.

Dopo “Una fuga in Egitto. Rotta virtuale per l’esilio” di Turi Zinna, uno spettacolo dal vivo in realtà mista e virtuale con la drammaturgia di Lina Prosa, Tino Caspanello e Turi Zinna, ieri è stata la volta del monologo “Il dio delle blatte” con Gerri Cucinotta, testo e regia di Gerri Cucinotta e Davide Miccione, la scenografia di Daniela Cornello.

Si parte dalle considerazioni, risibili ancorché acute, di un individuo cui la società impone di andare a vivere da solo. Sembra infatti non sia opportuno, oltre una certa età, fermarsi a casa dei genitori. Occorrerebbe pertanto superare ritrosie e ostacoli più o meno concreti e andare finalmente alla ricerca di una propria dimora.

E sono le ritrosie del protagonista a divertire il pubblico per metà dello spettacolo: dall’eventualità di stare male, all’impossibilità di traslocare tutti i fumetti, tutti i DVD, in una parola tutti gli “oggetti” che da una vita ti fanno compagnia e che ti rendono indipendente, sottraendoti all’occorrenza – ed è il caso dei DVD – persino al potere, alla volubilità dello streaming. 

Gerri Cucinotta argomenta con precisione e rigore, ma con la naturalezza di chi si racconta a qualche amico. Non v’è parvenza di finzione nel parlare al pubblico di sé, tutt’al più il tiepido timore di doverne reggere il giudizio.

Una volta lasciata socchiusa la porta del proprio mondo privato, non si ha alcuna percezione di teatralità. Il linguaggio è colloquiale e si adagia su un filo narrativo che intreccia i pensieri, che ne trasforma in parole il flusso ininterrotto.

L’attore impasta grammatica e autenticità, senza mai calcare la mano sull’una o sull’altra, e riesce perfettamente a dare lustro a un testo parecchio interessante, un testo svelto, brillante, accessibile, meditato, asciutto.

Le Orme con “Cemento armato” segnano la virata drammaturgica: uscita di scena del protagonista e l’ingresso di una casa da abitare. Ci sono appena una poltrona e poche suppellettili. In compenso, ad affollare l’ambiente, due belle pile di cartoni delle pizze. 

È una dimora buia, ma questo non è un problema. È una dimora in cui puoi ospitare Silvia e vivere di ricordi. È una dimora in cui puoi ricevere una donna che non è Silvia e che non ha neppure una chance di futuro. È una dimora, tra le altre cose, per gli insetti, e per risolvere il problema basterebbero delle zanzariere se gli insetti non fossero già dentro e le zanzariere non impedissero loro di uscire. 

Tu per una vita hai pensato che all’essere umano soggiacessero tutte le altre specie, che l’uomo fosse insomma al centro dell’universo. E adesso, a studiare le blatte per debellarle, scopri che questi insetti raccapriccianti non hanno punti deboli, che noi abbiamo costruito la storia e loro l’attraversano, che noi siamo insomma al loro servizio. Temiamo tutto, loro niente. 

E qui subentra l’universo del filosofo e consulente filosofico Davide Miccione, che ha scritto un testo su misura, che ha adeguato le parole al personaggio, per poi estenderle al genere umano, così tronfio, così convinto d’essere il padrone, eppure così servo. Al cambio di prospettiva il futuro assume le sembianze di un luogo affollato dentro al quale ci si sente sempre più soli. Un luogo nel quale sopravviveranno gli esseri più adatti: le blatte, per esempio. 

È proprio su questa visione che sfuma la quotidianità dell’individuo, sfuma la vita complicata di chi deve gettare i cartoni delle pizze in un dato giorno e dopo una data ora. Sfumano pure gli oggetti, sfuma l’esistenza smart che ci siamo affannati a rincorrere, per quel po’ di finta tranquillità sulla quale a teatro si può ancora ragionare. E lì dove tutto sa essere vero e finto allo stesso tempo, ci si può finalmente destare dal torpore, spalancare gli occhi su uomini e cose e finalmente vederli per quello che sono.

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