Uomo e galantuomo, un classico del teatro napoletano

La vecchia maniera di far teatro non sembra risentire del passaggio degli anni

Pare che persino dietro le quinte si ridesse, che al tempo delle riprese ballassero le macchine dei cameramen, che ridesse spudoratamente anche Paolo Graziosi e non ci fosse più verso di fermarlo.

E la bellezza di Uomo e galantuomo, e del teatro di Eduardo De Filippo in generale, è che a distanza di oltre un secolo si continui a ridere di gusto, che tutto, malgrado il volgere del tempo e dei costumi, risulti ancora sorprendentemente dilettevole.

La vecchia maniera di far teatro non sembra insomma risentire del passaggio degli anni. Sul solco della commedia di Eduardo Scarpetta, De Filippo ha congegnato i suoi perfetti meccanismi drammaturgici e, complici le registrazioni televisive, ne ha tramandato le soluzioni sceniche. È pertanto inevitabile che la godibilità di certo teatro non possa mai prescindere dalla sua stessa commemorazione, nelle forme consegnateci, apprese, diventate familiari.

Nessun vano e inopportuno paragone. Molto è cambiato fuori e dentro al teatro. Ogni allestimento di un classico, tanto più se in gran stile come nel caso di quest’Uomo e galantuomo di Armando Pugliese, è e deve essere un omaggio al teatro tutto, una risurrezione preziosa della bellezza, il suo prolungamento nel tempo, oltre i confini dell’ultima generazione che condivide questo patrimonio letterario.

Il riguardo del regista napoletano nei confronti della commedia di Eduardo De Filippo, scritta nel 1922, è massimo. Dall’adesione incondizionata al testo alla classicità della scenografia di Andrea Taddei, dai costumi di Silvia Polidori alle musiche di Paolo Coletta, tutto sembra prestarsi all’esigenza di conservare intatto il mondo di De Filippo. Al limite spolverarlo e lucidarlo, perché non manchi per l’ennesima volta di splendere, con la complicità, in questi casi ineludibile, di grandi professionisti della scena.

Al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, nelle consuete tre repliche, l’Uomo e galantuomo prodotto da Gitiesse Artisti Riuniti e Teatro Nazionale della Toscana, si è valso della maestria di Geppy Gleijeses nei panni del capocomico Gennaro De Sia, di quella del figlio Lorenzo Gleijeses (Alberto De Stefano) e della partecipazione di Ernesto Mahieux, un impeccabile Conte Tolentano, nonché di tutto un cast d’eccezione, per rimettere in funzione un meccanismo comico prodigioso, indistruttibile.

Sono Patrizia Spinosi, Ciro Capano, Gino Curcione, Roberta Lucca, Gregorio Maria De Paola, Irene Grasso, Salvatore Felaco, Demi Licata ad affiancare i sopracitati attori. Tutti all’altezza del compito, tutti provvisti delle caratteristiche necessarie per i loro ruoli.

I temi, alcuni dei quali di matrice manifestamente pirandelliana, sono quelli della follia, dell’umanità ricca che si interfaccia con quella vera, del teatro dei guitti alla vigilia del fascismo che lo avrebbe spazzato via, non fosse altro che per l’impossibilità di tenerlo d’occhio.

Nei due atti di Pugliese, del quale si evince la profonda conoscenza del teatro di Eduardo De Filippo, il ritmo è dettato dalla scrittura, i personaggi risentono delle sfumature della messa in scena originale, la lingua non subisce alcun allineamento al presente. È piuttosto sul fronte recitativo che ci si prende maggiori licenze: con attori del calibro di Geppy Gleijeses può la regia permettersi di imprimere una direzione che non calchi necessariamente le orme del passato, non almeno in maniera passiva. Per comprendere il senso dell’operazione teatrale occorre pertanto intendere la dimensione estetica dello spettacolo nel suo insieme, ben oltre il senso contenuto nella scrittura e di per sé non bastevole alla buona riuscita della messa in scena.

Fatta salva la trama, che mette in relazione la scalcagnata compagnia teatrale e la località balneare di Bagnoli popolata da borghesi e mescola adulteri, gravidanze ed equivoci, a sostegno di una vera e propria farsa, lo spettacolo restituisce al pubblico un magnifico spaccato di umanità in sintonia con il teatro ove meglio che altrove è possibile sovrapporre verità e finzione.

Gli stessi guitti, che durante le prove di Mala nova di Libero Bovio fanno incetta di tutte le passate modalità teatrali e le farciscono di comicità senza tempo, possono ben attestarsi sul piano della nostra realtà, costretti come sono a fare economia, a cucinare in albergo, a cassare parti per risparmiare, sostanzialmente a rassegnarsi a un mondo che non foraggia i teatranti, che non reputa evidentemente il teatro un bisogno primario della collettività. Poi, se manca il delegato di pubblica sicurezza si può sempre ricorrere a una lettera per notificare un arresto. E il cigolio di una porta che s’apre, senza artifici, è un suono facilmente riproducibile dall’attore stesso.

È molto forte, inoltre, il legame tra parola e azione, sostenuto dal dialetto napoletano che è musica e diventa strumento alla dinamica dell’intreccio. La recitazione degli attori, inappuntabile e opportunamente diversificata nei registri vocali e stilistici, e le scelte registiche, accorte oltreché discrete, facilitano il dialogo con la scrittura: un dialogo libero, pur tuttavia riconoscente, sorvegliato.

L’impianto scenico globale, col disegno luci di Umile Vainieri che l’imperla di quotidianità, è il felice esito di un perfetto equilibrio tra gli elementi. Il pubblico non può che gradire.

Vi si aggiunga il valore culturale di un’operazione che, nella sovrabbondanza letteraria e teatrale di questi tempi, riesce comunque a strappare al passato un teatro che ha vissuto di osservazione, di verosimiglianza, rivolgendo una costante attenzione alla società, e che è pertanto testimonianza di un’epoca, delle trasformazioni sociali che quell’epoca hanno contraddistinto, di una storia che di fatto riverbera nella coscienza dei grandi artisti.

E sempre, allorché si voglia leggere e interpretare il reale attraverso il teatro, si finisce col valersene per lenire un poco il dramma dell’esistenza.

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