Sulla struttura musicale della fuga, la personale riscrittura di un mito

Guardare, meravigliarsi, tornare a guardare”. Intenzioni sulle quali si edificano parole, note, forme e visioni legate al mito di Ulisse. Hanno valicato spazio e tempo, continuano a zampillare dalle ferite che le forme universali del pensiero hanno lasciato aperte, e sempre sgorgheranno con impeto. Almeno fintanto che l’uomo, per mezzo degli archetipi, continuerà a teorizzare l’essere, a dialogare con il sé più vero.
L’operazione complessa di Auretta Sterrantino si inserisce in questa tradizione e l’assimila, l’attraversa, la oltrepassa, fino a trasfigurarla con nuove e prodigiose parole che diventano suoni che a suoni a loro volta si mischiano, assestandosi su un contrappunto a più voci ove è percettibile il turbamento e mai del tutto discernibili note e fonemi.
“Ulisse. L’arte della fuga” è il periglioso navigare di Auretta Sterrantino sulle imponenti partiture di Bach e Dallapiccola, in quella imbarcazione che è sua e di Ulisse e dei tanti che solcano i mari, ininterrottamente guardando e meravigliandosi.
Il viaggio di Ulisse concepito dall’autrice trova dimora in un testo intimamente connesso alla struttura musicale della fuga. Dodici porzioni di narratio corrispondenti a dodici brani e volte a sintetizzare i ventiquattro canti omerici. Ricorre il numero dodici, cardine della dodecafonia e multiplo di tre, simbolo, tra le altre cose, di creatività come espressione e sviluppo dell’intelletto.
Nella chiesa di Santa Maria Alemanna, quarto appuntamento della rassegna Atto Unico di QA-QuasiAnonimaProduzioni e quarto capitolo dell’introspettiva sul tradimento, l’Ulisse di Auretta Sterrantino gode della mirabile interpretazione dell’attore, regista e drammaturgo Sergio Basile, non accompagnato ma in stretta relazione con l’esecuzione dal vivo del compositore e musicista Filippo La Marca.
Il territorio entro cui ci si muove è quello che sancisce il legame tra Bach e Dallapiccola, salvo poi sconfinare in quell’universo letterario che si è occupato di Ulisse in mille diverse maniere, finanche adombrandolo in personaggi atti a interpretarne il mito.
L’Ulisse cui pensa Auretta Sterrantino sta a mio avviso a metà tra quello di Omero, dominato da un profondo desiderio di conoscenza, e quello dantesco, spinto fino all’empietà dal coraggio, dal disprezzo dei limiti comuni. L’Ulisse che D’Annunzio antepose persino a Cristo in “Laus vitae”, quando ne sintetizzò la dimensione eroica nel motto per cui “Navigare / è necessario; non è necessario / vivere”.
L’Ulisse di Auretta Sterrantino acquista pertanto una dimensione spiccatamente umana, attraverso le salite e le discese della coscienza, cui soggiace l’elemento ritmico, quello delle note e quello delle parole. Tema e controtema a effigiare l’animo dell’eroe combattuto tra il desiderio di andare e quello di restare.
Il testo rigurgita altresì retorica da ogni poro, in linea con lo stile usuale dell’autrice e per l’occasione in sintonia con le qualità estetiche di Dallapiccola.
L’umanizzazione del mito a partire da un chiasmo: “Passi nuovi su nuove esitazioni”. Ché Ulisse percepisce lo sguardo dell’abisso su di sé, la solitudine e il sangue attorno, in quel peregrinare infinito che non contempla porti sicuri. “Siamo se cerchiamo” è la legittimazione del viaggio stesso, del dramma che si compie nel climax ascendente di “ombre / lacrime / pianto / rimorso / eterno soffrire”.
La casa resta un’idea da coltivare. La sosta una bugia da raccontarsi quando non si è mai dove ci si trova. Mare, mare e ancora mare. Perché Ulisse è “onda, acqua, mare, sale”. E quando le parole giungono a lui profane, quando le voci familiari sembrano quelle di sconosciute sirene, quando il tempo continua a ingannarlo, allora non gli rimane che tornare “all’unico ricordo che non si deve naufragare, torno al mare”.
Tutto è evocato, mai narrato. E tutto risponde al bisogno di quella medesima armonia cui Dallapiccola restituiva sembianze geometriche. Il taglio dei significanti a livello drammaturgico è esatto e corrisponde alla matematica alla quale obbedisce la partitura musicale, melodicamente disadorna.
La scrittura di Auretta Sterrantino si sottrae al tempo e sembra già prepararsi per attraversare nuovi Oceani, per cavalcare l’onda che non conosce sofferenza e domandarsi se esiste, se essa stessa non sia l’ennesimo incantamento.
Dopo lo spettacolo la tavola rotonda in cui Vincenza Di Vita, docente di drammaturgia, critico teatrale e direttore dell’Osservatorio Critico di QA-QuasiAnonimaProduzioni, ha moderato il dibattito. Ospiti il Maestro Mario Ruffini, presidente del Centro Studi Dallapiccola e il professore Paolo Campione, docente di storia dell’arte dell’Ateneo di Messina.
Ancora una preziosa occasione di confronto su un tema peraltro che è rimasto impigliato nelle trame del tessuto culturale universale e lì si è, come dire, moltiplicato all’infinito. Numerosi gli interventi e più che mai viva la partecipazione del pubblico. All’unisono, tra le riflessioni che scaturivano dalle varie angolature da cui si era guardato lo spettacolo, il riconoscimento del valore letterario della scrittura di Auretta Sterrantino, cui va il merito di aver raccontato, cantato il suo Ulisse fondendo alla tradizione il nuovo, congiungendo due mondi che solo la parola ha ancora oggi il privilegio di unire.

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