“Semper fidelis”, Il relativismo delle coscienze al cospetto della verità

Dopo aver subito per ben due volte i capricci del tempo, finalmente ieri, nell’area Iris che ospita l’XI edizione del Cortile Teatro Festival, è andato in scena lo spettacolo “Semper fidelis”, prodotto dalla Compagnia Teatro del Carro, scritto e diretto da Saverio Tavano, interpretato da Margherita Smedile, Vincenzo Tripodo e Francesco Gallelli.

Quello di Tavano è un universo che scientemente mescola realtà e finzione. È un teatro che sceglie di rendere manifesta la simulazione in scena, costringendo gli attori a gesti finti, interagendo con lo spazio come fosse abitato di oggetti, persino gestendo da dentro le luci, ove vi fosse necessità di dirigere un proiettore alternativamente su due personaggi.

Non vi sono finestre, non v’è una tavola realmente apparecchiata, non v’è alcun telefono, non v’è insomma nulla, a parte l’essenziale (tavolo e sedie), che possa restituire visivamente la realtà.

I gesti degli attori sono pertanto funzionali al quadro concepito da Tavano e al contempo ne dichiarano l’artificio.

Attorno alla tavola siedono tre mimi. Ma dei tre uno solo imita la realtà per professione. Sa pertanto farlo meglio degli altri, sa spiattellare la verità fingendo d’essere chi non è: a tutti gli effetti un coup de théâtre.

Padre, madre, figlio aggiungono infingimento, dentro la scatola teatrale, a una quotidianità tutt’altro che autentica. E si potrebbe proseguire all’infinito se la disperazione del figlio, compendiata nel tentativo di un gesto estremo, non sollevasse il tappeto sotto al quale evidentemente da lungo tempo ci si ostina a nascondere lo sporco.

Lo spettacolo, fulgido esempio di teatro di parola, tesse la trama attraverso un sapiente uso dei dialoghi e non trascura le reazioni emotive dei tre protagonisti. Ora è uno sguardo di sottecchi, ora il frenetico movimento delle mani, ora occhi a tradurre rabbia, rancore, odio, paura, rassegnazione.

Tra le mura domestiche si declinano del resto meglio che altrove le reattività dell’individuo. E sono bombe che vicendevolmente si innescano e che poi, non per caso, esplodono, tra un discorso sulla frutta acerba e su quella matura come metro di umana consistenza, tra i cubetti dello spezzatino a sei facce, mai perfettamente regolari, come la vita.

Fuori, sbatacchiato dallo scirocco, un tempo che non c’è più: la fine dei giochi, per abitudine o stanchezza.

Il padre, interpretato da Vincenzo Tripodo, è un misto di presunzione, prepotenza e misoginia. L’approccio alla vita è quello d’un militare che più non distingue la tutela della pubblica sicurezza dall’abuso di violenza.

È insomma un essere spregevole, finanche dentro casa, e l’attore, dalle prime battute al finale, veste il personaggio d’ogni riprovevole guasto, opportunamente calcando la mano sulle sue meschinità. La virata, occhi spalancati sul vero abilmente mimato, è un segreto. La virata è una debolezza. E – sia benedetta – lo riconsegna al genere umano.

La madre è una Margherita Smedile inafferrabile che letteralmente fluttua tra la debolezza e l’opportunità di fingersi docile, tra la distanza e l’intesa, tra la soavità e la durezza. La virata, col mare che resta di là dalla finestra, è il personale show must go on, un istante dopo la tragedia. E la sottrae, d’un palmo appena, al genere umano.

Perfettamente in mezzo, in questo vortice di relazioni e circostanze e ipocrisie tessute col filo spinato, c’è il figlio, cui spetta l’arduo compito di disseppellire la verità, mediante – come si diceva – la finzione. Con il nero addosso, risalta ancora di più il cerone bianco sul suo volto. Un istante fragile, poi pacatamente lucido, poi lucido e basta, poi impetuoso, poi ancora crudele. Francesco Gallelli è perfettamente a proprio agio dentro ai panni di questo giovane che attraversa tutta la gamma cromatica delle emozioni; sulle sue spalle il momento più forte dello spettacolo. Con il padre e la madre che reggono, a loro discapito persino, il tavolo e il suo crudelissimo gioco.

La virata è un attimo di sbandamento, a calcare le orme del padre. La virata è l’immediato ravvedimento. Poi, col volto sgombro di finzione, l’adeguamento alla realtà. Senza ombra di dolore. Piuttosto con l’imperturbabilità che segue i lunghi periodi di vento. Con quella quiete che subentra alla resa senza condizioni alla verità.

Saverio Tavano affonda le mani in una realtà ove tutto è relativo, ove la parola si presta a plasmare più o meno malamente le cose, ove non v’è modo di radiografare le coscienze. Se ne possono cogliere, piuttosto, le sfumature, i riverberi, qualche protrusione. E, nel far ciò, coi tempi esatti di una regia teatrale che non si perde tra i rivoli del superfluo, consegna allo spettatore un microcosmo che è metafora del mondo e innanzi alla quale i giudizi radicali andrebbero sospesi.

Sfaccettata è la coscienza dell’uomo, sfaccettata la realtà. E la verità, in mezzo all’anarchia cui sottostà l’esistenza, giova per rinascere o morire. Il teatro tuttavia pare non possa farne a meno.

ARTICOLI CORRELATI

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

SEGUICI SUI NOSTRI CANALI SOCIAL

6,704FansLike
537FollowersFollow
1,057FollowersFollow
spot_img

ULTIMI ARTICOLI