“Santa, la guerra” di Tino Caspanello, un romanzo che contiene, scaglia e salva la vita

Un piccolo borgo dei Peloritani durante la prima metà del Novecento. L’intento di strapparlo all’oblio, ora che la memoria è un possibile rifugio, l’arnese più adeguato a decodificare il presente, la maniera onesta di subire la vita, il senso da assegnare alla realtà, e a noi stessi.

Queste le premesse del secondo romanzo del drammaturgo, regista, attore e scrittore di Pagliara (ME) Tino Caspanello. Poi “Santa, la guerra” (edizioni La Gru) prosegue lungo una strada lastricata da tutto quello che il mondo contiene, il mondo d’allora e, illogicamente reiterando le movenze, quello di sempre.

La narrazione in prima persona costituisce la chiave per accedere al mondo interiore della protagonista, donna severa, decisa, forte, maledettamente orgogliosa e, benché sprovvista di molti strumenti conoscitivi, talmente lucida da anatomizzare la realtà con grande acume e altrettanta lungimiranza. Allora Santa assurge a metafora di quel Sud aspro, diffidente, fiero, coraggioso dentro al quale per sopravvivere pare si debba sempre lottare.

La guerra, infatti, è la co-protagonista della storia. Non la Grande Guerra, neppure quella che si prepara e della quale già si percepisce l’afrore. Piuttosto la guerra che quotidianamente si deve combattere contro un sistema sociale d’impronta malavitosa, contro un sistema patriarcale che sacrifica la donna, quando non la svende per opportunità, persino contro le parole che rievocano la guerra e, nel rievocarla, le conferiscono quella consistenza al cospetto della quale l’essere umano ha il dovere di provare vergogna.

Dentro a un registro stilistico semplice e grazie al quale l’autore onora il personaggio di una stupefacente credibilità, senza peraltro cadere nella trappola degli abusati cliché che relegano la Sicilia in un universo linguistico limitativo, ghettizzante, caricaturale, la parola ha del resto potere su tutto. E tutto vivifica.

Attorno alla parola ruota l’universo artistico di Caspanello, cui parimenti si riconosce, a teatro come tra le pagine, una lettura similmente accorta dei silenzi che palesano ancora e ancora il riguardo nei confronti della parola che pesa, vale, demarca i pensieri, denuncia le difformità del vivere. La parola che è una spina al fianco, che ti obbliga a ragionare. E non importa quanto grande sia il tuo bagaglio lessicale. Santa ne possedeva uno minuscolo, eppure le bastava per raffigurarsi, dentro, quel fuori che non ne voleva sapere di acquisire un senso comune, di concorrere a quella felicità collettiva senza la quale le gioie dell’individuo dietro l’angolo sconsolatamente sfumano.

Santa, il cui nome all’apparenza mal le si addice, ha imparato a mettere sulla carta i pensieri e poi a bruciarli: una maniera di scacciare l’orrore, di spogliare la guerra, le guerre, della capacità di farle ancora del male. La sua è la singolare e ammirevole santità di chi combatte ogni giorno, di chi non si arrende, di chi resta mentre guarda gli altri andare, di chi ne custodisce il ricordo. E il sacro, parallelamente alla sua inconsueta santità, si insinua di frequente nella sua storia. Ha poco a che fare con la religiosità propriamente detta, ammanta anzi quel mondo d’una devozione convenzionale ed esteriore cui la protagonista oppone l’ennesima resistenza, quasi mai volgendo lo sguardo al cielo e sempre affondando le mani nel fango.

Santa si abbandona a un lungo e ininterrotto flusso di coscienza, all’interno del quale i discorsi diretti si mescolano alle parole della protagonista, senza l’uso di segni di punteggiatura o del corsivo. È lei a tenere le redini della storia, con profonda onestà, consegnandoci gli altri personaggi filtrati dalla sua anima, dai suoi occhi schietti, incorruttibili.

Un sentimento che pervade il romanzo, e col quale Santa deve fare presto i conti, è la paura. Con la paura si governano e si ammansiscono le masse, con tutti i rimandi al presente che ne conseguono. Non spaventa – si badi – la morte. La morte è parte integrante della vita al tempo in cui Santa vive, ci devi fare i conti per forza. Allora la morte, per chi resta, è un po’ come l’America, un luogo dove stare meglio, dove stare bene. O almeno tu hai bisogno di immaginartelo così. La paura è pertanto l’ennesimo ostacolo da aggirare, quello cui si devono opporre forza, risolutezza, parole. Come quando Santa urla al marito una miriade di parole, imbracciando un fucile, annientata dal sospetto di doverlo davvero usare.

Nino, dal canto suo, è un personaggio che cresce al dipanarsi del racconto. È riconoscente, pulito, capace di coltivare sentimenti sinceri. Nino rispetta la moglie e comprende il dramma di molte donne. Gliel’ha insegnato Santa che, al suo fianco, risulta un gigante sì, ma non è certo l’effetto ottico che produce l’invalidità del marito. È semmai una questione caratteriale. “Io mi sono dovuta insegnare come lo dovevo trattare a Nino”. E i due hanno appreso insieme e reciprocamente i battiti impercettibili dei loro cuori. Non è che per l’amore vi fosse molto tempo allora, non almeno nell’accezione contemporanea di questo sentimento. L’amore si intravedeva nei gesti, nelle parole, nei silenzi: una compostezza inusitata e pari soltanto a quella che si assegnava al dolore, che pure attraversa tutto il romanzo.

 Il dolore, tra le pagine di Caspanello, preserva intatta la sua dignità, non scade mai nel pietismo. La protagonista non indugia mai sul suo dolore. Si deve sopravvivere, ora che la guerra il dolore te lo recapita dentro casa, si deve pensare ai vivi. Del resto il dolore non si dice, si vive e basta.

È un tempo, quello in cui vive Santa, di cui cogliamo tutte le asperità. Con gli occhi carichi di presente potremmo persino gioire d’averlo scansato. Ma siamo sicuri che, dietro la patina del finto benessere, della comodità, del tutto a portata di mano, non si celino le insidie di un tempo altrettanto spietato e mestamente vuoto? Noi stessi, che crediamo di possedere tutti gli strumenti per decodificare la realtà, non siamo forse più ciechi di Santa, meno capaci di lei di assegnare il giusto nome alle cose?

La ricognizione di Santa e del marito sul fascismo che muoveva i primi passi è, per esempio, straordinariamente e miracolosamente esatta. Così entrambi non cedono e, non cedendo, diventano archetipi di tutto il mondo che, oggi come allora, resiste. Il discorso previdente di Santa alle sorelle è di fatto un manifesto programmatico di quel poi che di lì a poco sarebbe stato e denuda quel presente, lo sottopone a processo, lo inchioda: “Quelli che ora sono al governo sono peggio dei Borboni, di Garibaldi e di quel cavolo di re”.

Con gli occhi carichi dell’eroismo della gente comune, Santa fa quindi la sua rivoluzione. Vuol cambiare il mondo, vuol combattere le disuguaglianze, mettere in ginocchio i potenti. L’impresa è ardua, titanica, ma lei vi si dedica con quella pulizia morale, con quella onestà intellettuale, con quella coerenza che l’accomunano all’autore del romanzo, per il quale, come per Santa, la felicità è in primis una questione essenzialmente sociale.

In “Santa, la guerra” c’è una bella parentesi su Messina nel ’24, una città che conteneva ancora i segni del terremoto. Quella Messina in cui Santa cerca giustizia, con nomi impressi sulla carta, con un limone da sbucciare, col coltello e coi suoi fiammiferi. In virtù di quel fuoco che la donna scopre poco per volta, come i suoi antenati. Il fuoco che è resistenza da opporre alle cose, che polverizza gli orrori, che è morte da seminare per sopravvivere. E col fuoco si bruciano le parole, per evitarne gli effetti devastanti.

Ora che abbiamo sperimentato la censura, ora che abbiamo assistito al massacro, all’abuso, all’uso scorretto e al travisamento di tutte le parole, non possiamo che inchinarci innanzi alla parsimonia di un mondo che alle parole, alle poche parole, assegnava giudiziosamente quel senso attorno al quale si avvolge Santa nell’esatto momento in cui nessuno può più ascoltarla, in cui le parole non hanno un destinatario, allora si perdono, e smarriscono il ricordo.

Dentro i perimetri della famiglia di quel tempo, ove si combattono sì altre guerre e, però, si preserva la memoria, si accarezzano garbatamente le anime, v’è un’attenzione particolare per i vivi e i morti. Restano piccoli gesti d’una dolcezza infinita. Nessuna manifestazione fragorosa d’affetto: è la sostanza che, nella semplicità, prevale sulla forma.

Ché pure se il futuro non esiste, non per Santa almeno, non per quel Sud che al futuro non ha consacrato nemmeno il suo dialetto, rimane sempre l’istintiva, contraddittoria, umanissima necessità di avere qualcuno accanto per affrontarlo. Ché la solitudine scava il vuoto, nella solitudine tracima la paura. E sull’estremo gesto di chiedere aiuto cala il sipario di un mondo sordo, ignavo, codardo.

Resta la voce di Santa però. Resta il grido della rivoluzione, dentro a un romanzo che la vita contiene. E scaglia. E salva.

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