“Polvere”, due comunissimi individui alle prese con le degenerazioni dei sentimenti che lentamente uccidono

La scena opportunamente scarna. Un uomo e una donna bastano a colmarla con le sole parole, con quella sequela di gesti che dicono, con i silenzi più urlati. Al centro del loro piccolo universo il pathos nell’accezione dell’antica Grecia e immiserito dalle quotidiane e attualissime inezie. Non è l’amore il motivo conduttore del dramma “Polvere” di Saverio La Ruina in scena alla Sala Laudamo. Non almeno l’amore puro e per certi versi illusorio che ci è stato raccontato. Attorno al tavolo convulsamente ruota l’abuso in una gradazione ascendente che non s’arresta malgrado i disperati tentativi della vittima di sottrarvisi.
L’uomo, nel tanto paranoico quanto studiato alternarsi di sadismo e amabilità, s’erge a giudice dell’altrui esistenza. Sottopone a costanti interrogatori la donna, invitandola a richiamare alla mente il proprio passato. Sporco, da qualunque lato lo si guardi. E sporchi sono i gesti, i vezzi, le pose. Sporco è tutto quanto le appartenga o le sia appartenuto. Non ci si spiegherebbe altrimenti l’avvicendarsi del tono dimesso della donna a suffragare le più sottili cattiverie e di quello meno paziente, più raro, a tradurne la coda di paglia.
Dalle sopracciglia ai movimenti delle mani, da un saluto per strada a un vecchio amore, tutto è peccato da espiare. E tutto risulta ammantato di una tale plausibilità da rendere la donna complice dell’uomo in questo perverso piano di annientamento psicologico.
Ci si domanda, in taluni casi, come si possa accettare d’essere trattate così. E la risposta è sulla scena, all’infittirsi dei dialoghi, all’arbitrario incollerirsi del carnefice e all’asservirsi rassegnato della vittima.
Il rosso della maglia che segnava le forme si spegne nella giacca di lana nera entro cui si rifugia la donna, per scampare all’inferno.
Dapprima il dispiacere, poi lo sconforto, poi ancora la disperazione del condannato che non ha commesso il reato. Infine, e lì tutto è già andato distrutto, la consolazione nelle braccia del torturatore.
A Cecilia Foti e Saverio La Ruina il merito d’aver incarnato, forse con una semplicità troppo marcata nei dialoghi acciabattati, due comunissimi individui alle prese con quelle degenerazioni dei sentimenti che lentamente uccidono.

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