“Perfetti sconosciuti”, il gioco al massacro di Paolo Genovese sbarca con disinvoltura a teatro

Ci troviamo dinnanzi a un gioco al massacro che molto richiama certa drammaturgia di Yasmina Reza

Paolo Genovese firma la sua prima regia teatrale con l’adattamento di “Perfetti sconosciuti”, il film pluripremiato nel 2016. Le unità spaziali e temporali, la sceneggiatura, i dialoghi della versione cinematografica si prestavano del resto alla trasposizione scenica.

Ci troviamo dinnanzi a un gioco al massacro che molto richiama certa drammaturgia di Yasmina Reza e anche in quel caso, con un processo tuttavia inverso, ci si insinuava agevolmente nell’universo intimo dei protagonisti, cui le circostanze assegnavano il ruolo di vittime e carnefici esemplari.

Le dinamiche relazionali, in tempi di costante connessione, costituiscono una tematica verso la quale tutti mostrano un certo impacciato interesse. È inevitabile pertanto che, tra le risate e quel minimo di compassione recapitata all’indirizzo del disgraziato di turno, si insinui una riflessione ben più ampia e opportunamente drammatica sulla fedeltà, sulla trasparenza all’interno della coppia e, più in generale, del microcosmo sociale dentro cui ci si dimena.

Gli smartphone, ricettacoli di immagini e parole sottratti a occhi indiscreti da un semplice codice numerico, hanno fatto saltare il banco delle famiglie felici. Oggi le tentazioni sono a portata di mano, le costruzioni di universi paralleli di fatto più agevoli. Che si giochi o si faccia sul serio, il rischio di perdersi nel sentiero scosceso del caos è davvero alto.

Materia inesauribile per sociologi, spunto interessante per tessere trame infinite.

Paolo Genovese, al cinema come a teatro, ha dunque immaginato che per una sera un gruppo di amici si consegnasse agli altri nel modo più invasivo e temibile: la condivisione del proprio smartphone.

Le conseguenze, come ci si può immaginare, sono nefaste. Deposta la privacy si cala inevitabilmente il sipario sull’ipocrisia e si assiste alla messa in scena della più misera verità. È una escalation di catastrofi personali che, in certi casi, persino si intersecano. Il dramma è corale, condiviso e universalmente condivisibile.

E su queste basi il successo non può che essere dietro l’angolo. A teatro, come già accaduto per la fortunata pellicola di Genovese, la storia funziona. Non servono particolari trovate registiche, non sarebbe servito neppure un apparato scenografico come quello che invece ha congegnato Luigi Ferrigno, realistico, vivace, confortevole. Non sarebbe servito null’altro che un buon cast cui dettare i ritmi, cui indicare i movimenti scenici funzionali. E il buon cast, a suo vantaggio in modalità non eminentemente accademica, c’era. Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Rosario Lisma e Valeria Solarino, ai quali per forza di cose si guarda anche in relazione al cast cinematografico, hanno fatto un ottimo lavoro. Il testo non richiedeva imprese attoriali mirabolanti e ciascuno si è prestato alla causa comune con grande professionalità e, quel che più occorre riconoscere, mai anteponendo l’esito della propria performance all’economia dell’allestimento.

La regia, supportata spazialmente dalle scene del già citato Ferrigno e dalle luci di Fabrizio Lucci, ha giocato sulla diversificazione degli ambienti, dal bagno alla cucina, dal balcone a quel soggiorno damnatio ad bestias contemporanea, per sciogliere taluni nodi drammaturgici, essenziali ai fini della trama.

Il pubblico delle grandi occasioni al teatro Vittorio Emanuele di Messina ha dimostrato di aver gradito questo “Perfetti sconosciuti” teatrale prodotto da Nuovo Teatro in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana e Lotus Production.

Si è riso molto, forse anche troppo. Indice a mio avviso del bisogno di ridere a teatro come pure dell’attitudine a ridimensionare col riso le disgrazie altrui, nell’insussistente illusione non siano potenzialmente anche nostre.

La ferocia nelle dinamiche relazionali pare sia tutta da vivere, ove sfortunatamente se ne presentasse l’occasione. Ché anche solo a parlarne si teme di evocarla. A teatro no, però. A teatro le si destinano tutt’al più quattro risate, come se il conto non fosse anche nostro. Poi, un istante dopo – e qui Paolo Genovese ci dà una grossa mano – fingiamo che nulla sia accaduto, che nulla possa accadere. Per vivere ingarbugliati nel disordine, ma apparentemente e illusoriamente felici e contenti.

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