MA come Madre nell’universo di Pasolini affrescato da Latella

Una donna vestita di nero, un fazzoletto e due grandi scarpe ai piedi. Dapprima silenzio, poi lacrime, poi ancora parole. mTutto parte da lì: da quelle due sillabe che bastano a tirare in ballo la Madre, fonte di vita, indispensabile gramsciano ricettacolo di dolore affinché i figli conservino intatti onore e dignità.  E nel dramma “Ma”, scritto da Linda Dalisi e diretto da Antonio Latella, il figlio è nientemeno che Pier Paolo Pasolini, artista e intellettuale versatile di un’Italia a lui ben nota e tutta da sconfessare. Almeno fino a quella tragica notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 in cui fu brutalmente ucciso sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia.
“Ma” è così l’intimo percorso all’interno di quell’universo pasoliniano che della parola fece l’arma nella battaglia della vita e nella parola ancora oggi si rigenera, attualizzandosi, assegnandosi spazi e tempi senza limiti. Attorno alla madre ruotava il cinema di Pasolini e della presenza materna erano pervasi il suo teatro, la sua letteratura. La madre di Pasolini, straziata dal dolore sotto la croce di Gesù nella pellicola “Il Vangelo secondo Matteo”, sarà la stessa che piangerà lui, quasi a sottostare al disegno divino che le assegna una sofferenza ancestrale per sottrarsi alla quale non v’è mai scampo.  Ebbene l’inquadratura s’allarga e la madre d’un figlio diventa madre d’una umanità intera, ove ogni cosa procrea. E procrea il marcio, l’ipocrisia, l’empietà, il più disgustoso squallore. Così da fermarsi al suono primordiale della prima sillaba, per diventare congiunzione avversativa, o semplicemente instillare il dubbio nelle coscienze.
È tutto un gioco di parole quello recitato, vomitato, sputato al Teatro Vittorio Emanuele  da un’impeccabile e convincente Candida Nieri. Logicità e lucidità fuori dalla scena, ché il dolore le imbavaglia. Le parole, strappate a forza all’universo di Pasolini, ricompongono il triste puzzle della disperazione d’una madre cui è stato strappato il suo “Cristo comunista”.
Non avesse letto, scritto, pensato, il figlio sarebbe vivo? Non fosse stato simbiotico il rapporto tra i due la vita sessuale di Pier Paolo Pasolini sarebbe stata quella già alla nascita segnata? E fu la madre a designare il figlio vittima sacrificale?
Se fosse vero che nella grazia della madre v’era tutta quanta la sua angoscia, Pasolini comunque non si sottrasse mai a quel legame che non perdeva occasione di trasfigurare nel proprio universo artistico. Il doppio Pier Paolo, l’intellettuale profetico che urlava e il debole uomo di periferia che taceva, era sempre lì, nell’anima che l’aveva concepito.
E, passando per “Mamma Roma”, “Petrolio”, “Porcile”, “Teorema”, “Medea”, resta per sempre il figlio e il suo cammino umano sui sentieri ora troppo stretti per le sue gigantesche scarpe ora ingiustamente sterminati per le scarpette del primo vagito.
Merito dell’abilissimo Latella è quello d’aver circoscritto il dolore, per poi darlo in pasto alla più esasperata individualità. L’immersione dell’attrice nella disperazione è totale, viscerale. E ricalca quella della Madonna, in questo folle gioco di rimandi tra l’uccisione di Pasolini e la crocifissione di Cristo. L’urlo è talora disperato e, senza preavviso, si arena nell’ancora più sgomento balbettio, per poi tornare a essere invettiva: “Io non lo volevo un figlio crocifisso, non lo volevo”. Una maniera assoluta, tutta femminile e sotterranea, di amare.

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