L’oceanica messa in scena del monologo Novecento di Alessandro Baricco

Ci sono storie che bastano a sé stesse. Hanno una vita propria. Le peschi dalle pagine di un libro e ti si appiccicano addosso, non ti si staccano più. “Novecento” di Alessandro Baricco è una di queste. Puoi rileggerla mille volte, puoi ascoltarla trasposta al cinema o a teatro e sempre ti catapulta in quell’altrove che solo certa narrativa ha il grande merito di architettare. Tu stesso “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Fa tutto da sé, è vero. Ma tu ogni volta speri sempre che quella storia te la raccontino in modo da fartela ascoltare per la prima volta. Una specie di miracolo che può ripetersi all’infinito.
Francesco Biolchini tiene da anni “Novecento” nel cassetto. Ogni tanto la rispolvera, insieme a vecchie valigie, a qualche lettera sbiadita e agli abiti per le grandi occasioni; la racconta a teatro, in oltre un’ora di monologo, e lui sembra davvero danzare su quell’oceano che per tutta la vita ha accompagnato le note dello strabiliante Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento. E su quell’oceano trascina anche te, per la prima o per la centesima volta. Mettendo a disposizione di una bellissima storia grammatica d’attore e autenticità, cuore. Perforando una quarta parete che sembrava ospitare per l’occasione i passeggeri a bordo del Virginian, cui Biolchini, nei panni del trombettista Tim Tooney, destina sguardi, risate, sospiri che sottraggono teatralità all’azione teatrale e aggiungono vita.
Una messa in scena oceanica che racconta una storia cominciata e finita su quel transatlantico in rotta di crociera tra le due guerre, con il suo carico di miliardari, emigranti e gente qualsiasi. Novecento è come un Pinocchio rimasto chiuso per tutta la vita nel ventre della balena, dove per sconfiggere la paura dell’oceano, per ballare, per sentirsi Dio, si suonava il ragtime, “la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede. Su cui Dio ballava, se solo era negro”.
Sul monologo allestito per la prima volta da Gabriele Vacis e interpretato da Eugenio Allegri ci ha imbastito una pellicola di oltre due ore Giuseppe Tornatore, qualcun altro ne ha realizzato tavole per un fumetto, altri ancora, tanti a dire il vero, hanno scelto per rendergli omaggio la strada del teatro. Il rischio, dietro l’angolo, era quello di rispolverare una storia nota a molti e fermarsi lì, sulla soglia che precede l’incanto della prima volta. Ma Francesco Biolchini lì non si è fermato e, mosso da un enorme rispetto per la professionalità scenica e per il pubblico, ha di fatto comunicato l’essenza di un’avventura umana, sfruttando tutto il talento di emozionare che manifestamente possiede.

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