L’inquisizione dei media nel dramma di Mamet “Il penitente”

Sul palcoscenico del teatro Vittorio Emanuele due enormi parallelepipedi pendevano in corrispondenza di un tavolo al quale era seduto, di spalle, Luca Barbareschi, con una kippah sulla testa. Un giornale e un taccuino da sfogliare. Sopra di lui, dal cubo di dimensioni maggiori, l’eco giornalistico e le immagini di repertorio di famosi casi giudiziari. 

Il pubblico via via si accomodava per assistere allo spettacolo “Il penitente”, ultimo lavoro del drammaturgo statunitense David Mamet, tradotto e diretto da Barbareschi e da lui interpretato, insieme a Lunetta Savino, Massimo Reale e Duccio Camerini.

Otto scene nel medesimo ambiente, ma contraddistinta ciascuna dai diversi effetti cromatici del cubo di dimensioni più contenute. In esse si dispiegava il dramma di un individuo demolito socialmente a mezzo stampa. 

La vita del singolo, già regolata per sua natura da precari equilibri, si infrange di fatto sulla giustizia sommaria che esige la società contemporanea. A pagarne il prezzo più alto colui che rimane fedele a sé stesso, vittima pertanto designata dell’inquisizione operata dai media. 

Giustizia, spiritualità e comunicazione al centro di una vicenda ricostruita dall’interazione tra i protagonisti, in quel “teatro di parola” cui alludeva Pasolini nel manifesto del Sessantotto. 

Il penitente è attaccato da più parti. Ed è profondamente solo e incompreso. Le sue motivazioni suonano inconcepibili alle orecchie della moglie Kath, come a quelle del proprio avvocato o della pubblica accusa. 

Lo psichiatra vive una profonda crisi professionale e morale quando rifiuta di testimoniare in tribunale a favore di un paziente accusato di avere compiuto una strage, lo stesso che si aggirava in sala e si godeva lo spettacolo.

La gogna mediatica si abbatte su di lui prendendo a pretesto una presunta dichiarazione nella quale il medico considererebbe un’aberrazione l’omosessualità. Serve a poco a Charles negare innanzi ai suoi interlocutori. Tutti cercano un capro espiatorio e la stampa, la collettività, la stessa legge che dovrebbe sottrarsi ai biechi meccanismi di strumentalizzazione trovano in Charles il capro espiatorio perfetto. 

Le malattie mentali sono – a detta di Charles – disturbi dell’anima. Il medico che se ne occupa, tanto più se ispirato dalla parola e dall’amore di Dio, è l’imputato migliore che la società possa partorire. 

Il segreto professionale, il costante richiamo al giuramento di Ippocrate sono quisquilie al cospetto della colpa che, senza possibilità d’appello, gli si riconosce.

Pochi interventi sulla drammaturgia e l’accento posto dalla decorosa regia di Luca Barbareschi sull’aggressione mediatica concorrono a una messa in scena interessante, sobria come si confà al teatro di parola e forte del valore attoriale di tutto il cast.  

“Tu ci hai uccisi tutti” è l’accusa rivolta da Kath a Charles, proprio sui titoli di coda, quando il dramma ormai si è compiuto, quando sono da contare le vittime, quando il colpevole è uno e uno solo, per acclamazione. 

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