La rilettura in chiave noir di Luca De Fusco del dramma più trascurato di Pirandello

Luca De Fusco, direttore del Teatro Stabile di Catania, porta in scena “Come tu mi vuoi”, una delle opere di Luigi Pirandello più trascurate. E lo fa, come si ha avuto modo di apprezzare durante la prima delle tre repliche al Vittorio Emanuele di Messina, mescolando prudenza e disinvoltura, tradizione e svecchiamento.

Si è scelto, del resto, di lavorare su un dramma complesso, dalla trama tortuosa, e di farlo puntando molto sull’apparato scenografico: austero, essenziale, cupo come si addice a certe atmosfere pirandelliane, ma impreziosito dal taglio cinematografico e da una interessante scenografia ispirata alla galleria degli specchi de “La signora di Shangai” di Orson Welles.

È un lavoro, come pochi altri, di squadra. Le scene e i costumi di Marta Crisolini Malatesta, ben intesa la strada che intendeva percorrere De Fusco, hanno senz’altro enfatizzato il dramma intimo dell’individuo alle prese con l’ambiente esterno, immiserito da intrighi, miserie, grossolanità. La protagonista, interpretata da una generosa Lucia Lavia, si muove dentro alla scatola del palcoscenico tra i blocchi grigi che ne delimitano lo spazio. E vi si muove, ora soavemente ora in modo febbrile, indossando una vera e propria seconda pelle di pizzi, intrecci, geometrie che rimandano alle proiezioni, nonché alle finzioni cui ci si deve votare allo scopo di sopravvivere.

Il dramma, qui nell’adattamento riguardoso di Gianni Garrera e Luca De Fusco, è tutto giocato sull’infingimento come strumento di vendetta contro le meschinità altrui, spargendo caos, mescolando di continuo le carte e restando fedeli unicamente a sé stessi.

In “Come tu mi vuoi” il drammaturgo di Girgenti, che prende spunto dalla reale vicenda Bruneri-Canella, meglio nota come il caso dello smemorato di Collegno, assegna alle sue creature un doppio universo dentro cui agitarsi: la Berlino scattante e carnale del primo dopoguerra e l’Italia provinciale, retrograda del medesimo tempo storico. Occorreva pertanto operare a livello registico gli opportuni distinguo. E De Fusco sceglie la strada non della forma, che sarebbe risultata prevedibile e desueta nell’affastellamento dei cambi scena, ma della sostanza: è la parola insomma a scandire i tempi, a disegnare i luoghi, scortata peraltro dalle luci di Gigi Saccomandi che dettano la fotografia dentro a quel set che può essere, splendidamente pure, il teatro.

Vi si aggiungano, nel novero dei punti di forza dello spettacolo, le proiezioni di Alessandro Papa: non si sarebbero potuti restituire meglio di così allo spettatore il dramma tra vita e forma, gli intrighi della finzione, la malleabilità e al contempo la resistenza del vero.

L’ignota, sulle prime un “corpo senza nome”, si serve del gioco crudele messo in atto dalla vita per restare fedele a sé stessa. Per scegliere finalmente dove e come spendere il tempo della propria esistenza. Non sono più gli altri ad assegnarle un ruolo, o un senso. La verità non abita spazi condivisi. La verità dimora unicamente nella nostra anima.

Al noir che si rappresenta a teatro concorrono le musiche di Ran Bagno. I movimenti coreografici, per lo più della protagonista, sono di Noa e Rina Wertheim – Vertigo Dance Company.

L’atmosfera è esatta. Di grande impatto visivo ed emotivo.

Non ci si sofferma qui sulla trama. Occorre piuttosto plaudire il lavoro degli attori, sovrastati chiaramente dal peso drammaturgico della protagonista. Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo, Isabella Giacobbe costituiscono senz’altro un ottimo cast. Anche a loro si deve la tenuta, in termini di attenzione, dello spettatore, cui toccava districarsi tra la trama complessa della storia.

Mi ha piuttosto lasciata perplessa la scelta registica di “riteatralizzare” il teatro mediante il tono sostenuto di tutti gli attori, a detrimento del realismo, talora della credibilità del personaggio. Si accede comunque al mondo privato, ma lo si fa con maggiore fatica, attraverso il complesso processo di decodifica della parola, un processo dapprima linguistico, solo dopo emotivo.

La percezione di teatralità rimossa dall’apparato scenico e dalle luci era insomma recuperata, e in pompa magna, dalla recitazione di tutto il cast, sovente innaturale, dai toni caricati di emozionalità. Presumibile, in tal senso, che dentro ai margini di un teatro pirandelliano in cui tutto rimanda al perenne contrasto tra vita e forma, Luca De Fusco abbia voluto che l’allestimento e la direzione degli attori imboccassero due strade diverse, per certi versi incompatibili.

Così che, mentre ci si chiede chi sia Elma e chi Cia, ci si trovi impigliati nella rete di una realtà confezionata coi fili dei ricordi, dei sogni, dei rumori della gente. Strattonati da una parte dal teatro, dall’altra dalla vita.

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