“La grande menzogna” di Claudio Fava, un’amara e lucida ricognizione sull’affaire Borsellino

La scrittura dell’ex presidente della Commissione antimafia in Sicilia è audace

A distanza di oltre trent’anni, quando ancora i ridicoli tentativi di depistaggio offendono la nostra intelligenza, la strage di via D’Amelio rimane irrisolta, rimane un buco nero della storia italiana, un fiasco giudiziario, una grande menzogna.

Sono queste le premesse della lucida ricognizione sull’affaire Borsellino di Claudio Fava che, ancora una volta, sceglie il teatro per svestire la realtà degli ingannevoli abiti confezionati dallo stesso Paese che piange lacrime di coccodrillo sulla lapide dei suoi morti.

La scrittura dell’ex presidente della Commissione antimafia in Sicilia è audace e risente della consapevole e plausibile severità di giudizio che sta alla base di tutta l’operazione. Ciononostante, tra il sarcasmo e l’indignazione, l’autore non perde di vista per un solo istante l’armonia, l’equilibrio di cui è intrisa una drammaturgia che sceglie pur sempre di affondare le mani nel fango.

A palazzo Calapaj – D’Alcontres, chiudendo peraltro la prima parte del Cortile Teatro Festival, è andato ieri in scena lo spettacolo “La grande menzogna”, scritto e diretto da Claudio Fava, con David Coco, prodotto da Nutrimenti Terrestri.

Sul palcoscenico giacciono, disposti alla rinfusa, undici manichini. Paolo Borsellino siede già a un tavolo e fuma mentre il pubblico prende posto.

Ad attentato avvenuto, il giudice inchioda l’Italia alle proprie miserie, la serve ipocrita e disonesta agli spettatori, rimette insieme i pezzi di una storia trasfigurata dalla malafede, apre la strada a qualche inconfessabile verità.

E via via che si avvicendano le scene, dal primo manichino del SISDE in via D’Amelio, dove si trovava ancora prima che vi giungessero le forze dell’ordine, a tutta una sfilza di impostori, vili, pietosi protagonisti della storia, sfilano fatti e persone, gli uni malamente costruiti e le altre, come manichini appunto, senza anima.

La mafia è giustamente chiamata in causa: il capro espiatorio per eccellenza, utile all’interno e fuori dai palazzi, l’enorme tappeto che copre il sudiciume.

Così è proprio il giudice Borsellino, interpretato da David Coco, a raccontarci quell’altra storia che ci è stata, pure malamente, taciuta.

A partire dal giorno in cui, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, blindato e all’apparenza inaccessibile, fu ripulita in tempo reale la sua scrivania, fino ad allora perennemente in disordine. Quando mancarono all’appello le carte delle più recenti inchieste, i fascicoli importanti, come del resto mancarono i mozziconi di sigaretta nel posacenere della villetta del giudice, a Villagrazia, dove altri entrarono in tempo reale, senza che mai qualcuno si preoccupasse di dare il giusto peso alla vicenda.

E no, non si possono commettere tanti errori. Non almeno tutti insieme senza che vi sia un intento di depistaggio dietro.

In piedi, nella messa in scena della menzogna, il manichino di Vincenzo Scarantino. Un poveraccio a cui tutti vogliono, e devono, credere.

In piedi anche i manichini del Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, del poliziotto, funzionario e prefetto, dirigente generale di Pubblica Sicurezza Arnaldo La Barbera, dell’uomo forte dei servizi segreti Bruno Contrada.

Un mare di uomini e cose dentro al quale l’Italia miseramente annega. E a guardarla nientemeno che Borsellino in persona, dalla sua spiaggia solitaria.

Lui che amava il diritto civile, prima che finisse com’è finita. Lui che fumava due pacchetti al giorno di Esportazione senza filtro. Lui che, dopo trent’anni di farsa, punta giustamente il dito contro tutti noi che lo abbiamo considerato né più né meno che il nostro atto di fede. E lo fa, grazie alle parole di Fava, con una presenza di spirito e una signorilità ammirevoli.

David Coco interpreta Borsellino con grande mestiere e altrettanta generosità. Si colloca sulla linea esatta di demarcazione tra grammatica e autenticità. Sa vivere appieno le emozioni del personaggio, fiancheggiando il realismo della messa in scena, pur sempre misurato vista la scelta del drammaturgo di affidare direttamente al giudice il ruolo del narratore, e sa mantenere all’occorrenza il tono didascalico e freddo di chi mira alla presa di posizione dello spettatore.

Quando, uno a uno, tornano al loro posto i manichini molti dei pezzi di questa grande menzogna stanno finalmente insieme.

Ci si rammarica semmai del fatto che siano dovuti trascorrere diciassette anni prima che potessimo quanto meno affrancarci dalla falsa pista indicata da Scarantino, a sua volta imbeccato da quelli chiusi nelle loro facce di pietra, immersi nei loro silenzi. Una pista che oltretutto ci offendeva per la sua inconsistenza e labilità.

Mentre si giravano dodici film, si intitolavano un gran numero di piazze, strade, scuole.

Ci si rammarica e ci si imbestialisce. Perché forse a Paolo Borsellino che gli si dedicassero piazze, strade, scuole non fregava granché.

Una vita a inseguirla, che gli si dedicasse la verità. Almeno quella.

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