La drammaturgia di Palazzolo tra autolesionismo e ferocia, superbia e vulnerabilità

“Via Crudex” spiega il suo asse narrativo sul percorso doloroso dell’attore, e non perde mai di vista la strada maestra

Una riflessione sul teatro, sul ruolo oggi dell’attore, sulle complesse dinamiche di un mondo che mette in relazione figure professionali di diversa estrazione culturale, sull’urgenza, o semplice opportunità, di scrivere per il teatro, sull’arduo compito di confezionare lo spettacolo, sugli occhi che vi si posano e sulle attese del pubblico rimasto ora che molto, o tutto, si è spostato altrove, sarebbe rimasta materia inesauribile – neppure troppo accattivante – per manualistica settoriale se qualcuno, con apparente nonchalance, non ce l’avesse sbattuta in faccia ricostruendo il cammino penitenziale dell’attore in primis, poi di tutti noi. 

È un’operazione che chiama senz’altro in causa freddezza e sadismo, che mira all’appagamento lucido dei sensi nella messa in scena del martirio, che non ammette il distoglimento dello sguardo, che tutt’al più ti elemosina istanti di costruita giocondità per regalarti l’effimera illusione di un dolore simulato. 

E se pure giunge a confortarti una parvenza di finzione tu sai che dietro la nonchalance, la freddezza, il sadismo d’un gigante della parola come Rosario Palazzolo si cela la profonda sofferenza dell’uomo che assiste allo spettacolo del vivere e, senza mezzi termini, te lo restituisce. Così com’è. Talvolta persino peggio di com’è. 

La drammaturgia che attraversa tutte le stazioni del dolore, mischiando autolesionismo e ferocia, superbia e vulnerabilità. Nella consapevolezza, che suona come condanna, di non potere fare altrimenti per guadagnarsi da vivere.

Rosario Palazzolo è un drammaturgo, regista e attore palermitano. Della sua terra è intrisa tutta la sua produzione, teatrale e letteraria. Della Sicilia, tra i fiumi di parole sparsi, se ne rinvengono non già i profumi e le bellezze, ma le asperità, le approssimazioni, i guasti, le insensatezze. Si potrebbe azzardare l’ipotesi di un esistenzialismo nichilista e neodecadente distante dalla politica e prossimo piuttosto al pop che rigurgita una realtà in forma servibile e all’occorrenza dilettevole.

E per far ciò l’universo tetro di Palazzolo si giova di una scrittura lessicalmente, strutturalmente e musicalmente esatta che a teatro trova dimora, non chiedendo il permesso, ma al contrario imponendo la sua ingombrante presenza, ammantando di parole i gesti, le azioni, assegnando suoni persino ai silenzi. Tutto soggiace alle parole. Tutto dalle parole dipende. Nulla esiste fuori dal loro universo.

E questo “Via Crudex – Cantico della minaccia”, prodotto dal Teatro Dei 3 Mestieri e andato in scena lo scorso fine settimana a chiusura di stagione, è l’espressione più eloquente dello scenario che si configura prima, durante e dopo la detonazione Palazzolo.

Due attori, Stefano Cutrupi e Silvana Luppino, hanno sostenuto il carico di un lavoro che letteralmente li inchiodava al loro ruolo. L’hanno fatto senza risparmiarsi. Poco personaggi e molto attori. Dovevano affondare le mani nel fango della loro professione, sporcarsi, pescare nel torbido delle loro coscienze al solo scopo di sopravvivere. 

Il teatro ne esce fuori malconcio, il pubblico ne esce fuori malconcio. All’indirizzo delle direzioni artistiche degli stabili non poche responsabilità. Poi c’è il prezzo altissimo da pagare, ripartito tra gli artisti più o meno equamente. È guerra, senza esclusione di colpi. E tutti sono destinati a pagarne il prezzo.

La drammaturgia di Palazzolo s’erge sovrana sulle coscienze dei singoli e le pungola, le provoca, le manipola. Poi le dà in pasto agli spettatori, che amano il calvario, l’orrore, il sangue sputato sulla scena.

Stefano Cutrupi e Silvana Luppino consegnano  generosamente sé stessi alla regia di Palazzolo, aiutato da Marcantonio Pinizzotto, si rassegnano alle parole persino quando fingono una pessima improvvisazione. A testimonianza del fallimento d’un teatro senza parole, un teatro che guarda al nuovo, che si approssima alla rete, che deve competere con la tele tv, che rincorre una lingua senza anima, che saccheggia la grammatica, che stona persino in quell’universo stonato che a conti fatti è il teatro.

Salvo poi virare, in un monologo che ti accappona la pelle, sul sogno di un teatro che recuperi la prossimità, che si cibi di occhi, che possa abbandonarsi alla sua personale rivoluzione, rincorrere e afferrare sprazzi di felicità e follia, cedere il passo ai peggiori incubi. 

I poveri attori che aspirano a diventare personaggi non intendono più mettere in scena un dramma tanto diverso dal loro. Allora si spogliano, si vestono, si travestono, divertono, impietosiscono. Versano sangue e lacrime. Diventano tutto e niente. Nei pochi attimi che hanno a disposizione prima di perdere il loro pubblico.

Lo spettacolo, che pure si presta ai gusti perversi degli astanti, volutamente disturba, mette a disagio, scompagina i ruoli. Non solo non v’è distinzione netta tra palcoscenico e platea, ma lo spettatore è costretto a stare sulle spine per tutto il tempo. Ignaro se ai due agnelli sacrificali in scena se ne aggiungano o meno altri in corso d’opera.

Che poi il teatro di Palazzolo, in questi termini, diventa metafora del mondo finto entro il quale goffamente ci agitiamo per piacere, affermarci, sostentarci. Con la sensazione talora di fare una bella scampagnata. E la ruota intanto gira, i ruoli sono intercambiabili, nella frazione di un secondo si diventa da farcitori farciti. È un festino sì, d’una crudezza pari a quella del festino cui alludeva Montale quando effigiava la condizione di prigionia dell’uomo moderno. Ogni tanto ci si sbuccia un ginocchio. Poi però si ricomincia a passeggiare, portando sulle spalle la croce.

“Via Crudex”, per una critica soddisfacente del quale andrebbe analizzato dapprima il testo, spiega il suo asse narrativo sul percorso doloroso dell’attore, e non perde mai di vista la strada maestra. Ci ritrovi in ogni anfratto la weltanschauung dell’autore e la sua impronta registica. È il primo a mettersi in gioco. Ché nessuno dentro a questo teatro può mai dirsi in salvo. Se poi si spaventa, se si piega all’omologazione è davvero spacciato.

Quanto all’allestimento, ci si fregia in “Via Crudex” di un tappeto musicale perfetto: Gianluca Misiti ne ha scortato il ritmo, sostenuto le distorsioni emotive, esaltato la temibilità di parole affilate come coltelli. Ciò che accadeva sul palcoscenico si percepiva con tutti i cinque sensi. I costumi di Mary Campagna non si sottraevano al gioco dell’interscambio, né opponevano resistenza al disegno di farne a meno, sul finale. Le luci tutto bagnavano e tutto ignoravano. Nulla che fosse lineare o, più banalmente, amabile. Men che meno confortevole. 

Per questo teatro si deve essere insomma disposti anche a morire. E che si muoia o si risorga ci vorrà sempre qualcuno disposto come Palazzolo a sporcarsi le mani confezionando storie di passioni che ti scuotono, ti scombussolano, ti costringono a stare scomodo almeno per un po’. Restituendoti l’umanissimo disagio del vivere e costringendoti, mentre vorresti voltarti dall’altra parte, a guardarlo da vicino. 

Ph Pietro Morello

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