Il teatro disinvolto, incalzante, irresistibile di Maniaci d’Amore e Kronoteatro

Il progetto EPIC di Mana Chuma Teatro in collaborazione con Latitudini e Teatro dei 3 Mestieri si è concluso con la doppia replica dello spettacolo “La fabbrica degli stronzi” prodotto da Kronoteatro e Teatro Nazionale di Genova, con il sostegno di Residenze PimOff Milano.

È l’incontro di due realtà teatrali tra le più affermate nel panorama nazionale: Maniaci d’Amore costituita da Francesco d’Amore e Luciana Maniaci e Kronoteatro, fondata nel 2004 dagli studenti del Liceo G. Bruno di Albenga che avevano partecipato al laboratorio teatrale tenuto da Maurizio Sguotti.

E “La fabbrica degli stronzi”, drammaturgia Maniaci d’Amore, con Tommaso Bianco, Francesco d’Amore, Luciana Maniaci e Maurizio Sguotti, regia Kronoteatro e Maniaci d’Amore, scene e costumi Francesca Marsella, disegno luci e responsabile tecnico Alex Nesti, nato da questo lieto connubio tra mondi che si approssimano quando gettano il medesimo sguardo disincantato sulla realtà, dà modo a tutto il teatro di gongolare: la vivacità, la forza, la bellezza di certa drammaturgia contemporanea restituiscono un teatro in perfetta salute anche a chi, cartelloni di vari stabili alla mano, ne vorrebbe già celebrare il funerale.

“La fabbrica degli stronzi” si erge sulle fondamenta di un testo solido, ancorché duttile dentro ai perimetri dello spazio scenico. La regia, poi, sa come esaltarne o all’occorrenza contenerne la furia, escogitando un espediente dopo l’altro, e coi tempi esatti che richiede un teatro disinvolto, incalzante, irresistibile. Non si indugia un solo istante sul manierismo fine a sé stesso. L’affresco possiede la tempra forte dei colori vivaci, la cornice è per molti versi assurda, ma dentro alla bellezza delle forme si tiene in gran conto il pubblico cui si recapitano, con estrema leggerezza, esistenze malconce e, nel magma di drammi consueti e universali, qualche cazzotto allo stomaco.

Due fratelli e una sorella alle prese con il cadavere della madre. Abiti neri per tutti, chiome rosse di vivi e morti. La defunta, interpretata da un Maurizio Sguotti straordinario, che va lavata, vestita e truccata, come Nicoletta Orsomando, la più famosa delle signorine buonasera.

Una madre d’una pacatezza e docilità disarmanti, con quegli arti che si lasciano alzare senza opporre grande resistenza, con le parole di chi non crede gli appartenga il conto delle anomalie familiari. È del resto la psicanalisi ad affibbiare ai genitori le colpe d’ogni male dei figli. Ed è la psicologia spicciola, quella dei media, quella a portata di social, a gonfiare a dismisura l’universo dei mali, deresponsabilizzando l’individuo e relegandolo al ruolo di vittima. “Fai quel che puoi” è il furbo refrain cui si ricorre, abbeverati di psicologia prêt-à-porter, tutte le volte che ci si vuole sollevare dal peso del fallimento.

Nel gioco al massacro che si mette in scena, metafora peraltro del medesimo gioco socialmente condiviso, i martiri fanno a gara tra loro per essere più martiri degli altri. I figli, in questo caso, possiedono tutti gli strumenti atti a sollevare sé stessi dal fallimento e recapitare ogni smacco esistenziale all’indirizzo del genitore morto. Concorrono essi stessi alla gara tra chi ha risentito di più delle negligenze, delle assenze genitoriali. E il rapporto tra loro, buono solo all’apparenza, risente dei conflitti che ciascuno ha con la parte più infantile di sé, della simulazione in tema di ricordi, dell’acquisizione in termini psicanalitici delle conoscenze indispensabili a forgiare la realtà a proprio piacimento.

“La fabbrica degli stronzi” è dunque un’ora di delirio, quasi sempre cosciente, organizzato per ridurre a brandelli una madre nel momento esatto in cui la si deve vestire per l’ultima volta.

L’umorismo attraversa tutto lo spettacolo ed è nero, crudo, allucinato; è la valvola di sfogo freudiana per impulsi aggressivi o sessuali repressi; è la chiave per accedere all’universo complesso di una famiglia guasta senza rigirare il coltello nella piaga, tutt’al più trasformando i disordini della mente in ammissibili stravaganze.

Non mancano momenti di profonda malinconia, ma sono destinati a essere presto spazzati via dall’incalzare della realtà, intesa come tirannide sì, ma pure distrattivo, rifugio, perfetto alibi.

Agli attori, eccezionali e in perfetta sintonia tra loro, la regia assegna gli spazi dentro ai quali muoversi, con irriverenza se necessario, come a ricreare un’iconografia sacra, precisamente mariana. Il lavoro scenico si direbbe autonomo rispetto alla drammaturgia, secondo quella lezione di Artaud che distingue il gesto dalla parola, che sottrae il linguaggio fisico da quello articolato.

Il testo, sia chiaro, è interessante e detta senz’altro le coordinate entro le quali registicamente ci si deve muovere. Ma il valore aggiunto di questo spettacolo è la capacità di “sostenere” le parole in tutte le maniere possibili. Ora con la capacità degli attori di stare in equilibrio sul filo della verosimiglianza, con lo sguardo perennemente rivolto al fascinoso baratro dell’’artificialità più smaccata. Ciononostante la recitazione è esuberante, senza tregua votata all’azione. E l’azione è scortata da un disegno luci che assolve al ruolo di co-protagonista in un lavoro che individua nel surrealismo il proprio marchio di fabbrica.

Vivi e morti continuano intanto a danzare sulle medesime note dell’universo familiare che li ha resi così maledettamente “stronzi”, che ha tirato fuori il peggio di ciascuno e che ridimensiona alquanto il concetto di famiglia inteso come rifugio amorevole e sicuro.

E lì infatti che si consuma il dramma finale. Tutti a predisporlo, nessuno a macchiarsi le mani. Stronzi e vili. Ma la madre è una presenza troppo ingombrante per disfarsene così, con uno stupido arnese.

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