“Fratellina”, Del desiderio d’una carezza o del tentativo di raddrizzare la luna

“Fratellina” è la fotografia, sfocata come si confà ai soggetti surreali, di un istante dentro al quale si rincorrono domande quasi sempre orfane di risposte

Il senso di inappartenenza, la resa incondizionata al vuoto e la rinuncia alla pretesa di riempirlo, l’urgenza di riappropriarsi della bellezza, di percepire l’altro tra il fragore dell’umanità e l’indispensabilità del silenzio, il disagio che reclama attestazione, il desiderio di recuperare lampi di vita e colori e grazia, per raddrizzare il possibile o ricominciare a inventare: questo il solido, ancorché sfuggente, basamento sopra il quale s’erge “Fratellina”, l’ultimo spettacolo della Compagnia Scimone Sframeli in co-produzione con il Teatro Metastasio di Prato.

Già insignita del Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2023 quale “Migliore Novità Italiana”, la pièce scritta da Spiro Scimone, diretta da Francesco Sframeli e da entrambi interpretata insieme a Gianluca Cesale e Giulia Weber approda, nei consueti tre giorni di repliche, al Teatro Vittorio Emanuele di Messina.

Le modalità espressive della Compagnia sono ben note: il dialogo serrato esasperante tra gli individui che nella reiterazione delle parole trovano scampo alla temibilità del nuovo o del troppo; l’avvicendarsi dello sguardo malinconico sul mondo e il piglio ironico ad ammorbidirne l’amarezza; la sfida sul terreno della comunicazione disputata con genuina arrendevolezza e sporadici nonché timidi tentativi di affermazione.

Quelle sulle quali si concentra la poetica della Compagnia, che dai tempi di “Nunzio” sfonda la porta dell’incomunicabilità e approssima tra loro gli individui nella personalissima maniera cui si deve la riconoscibilità della cifra stilistica, sono anime ai margini dell’esistenza, perlopiù vittime di un disagio sociale che nel tempo assume dimensioni preoccupanti, anime alla deriva in quel mare di ingannevole opulenza che è diventato il mondo.

“Fratellina” è pertanto la fotografia, sfocata come si confà ai soggetti surreali, di un istante dentro al quale si rincorrono domande quasi sempre orfane di risposte, si intrecciano vite senza storia, si snocciolano luoghi comuni buoni solo per essere scavalcati dalla necessità di una prospettiva tanto astratta quanto magicamente autentica.

I protagonisti sono Nic, Nac, Fratellino e Sorellina. I primi due, rispettivamente Scimone e Sframeli, risentono etimologicamente dell’appartenenza a un universo estraneo,

fuori luogo, che è nostrano e a sua volta eco d’una latinità mai realmente perduta. Gli altri due, Cesale e Weber, attestano nei nomi un legame formalmente ineccepibile cui tuttavia – ingannevoli come sanno essere le parole – non si accompagna una profonda conoscenza.

Sono Fratellino e Sorellina la “trama” che si insinua nel dramma puramente filosofico e, vittime dell’umana voracità esistenziale, sono presto restituiti a una verità altra. Senza prevaricazione, senza manipolazione. Solo con la mitezza della speranza, con la fraterna cognizione di avere bisogno dell’altro al punto da preferire la condivisione del poco in uno spazio angusto a quella del nulla nella disorientante vastità del reale.

I quattro ragionano ciascuno dal loro angolo di mondo, che nella visione vivace e ingegnosa di Lino Fiorito è costituita da due letti a castello, e lì tutti palesano un’inquietudine nella ciclicità dei cambi di posizione. Non v’è insomma la testa del letto, non vi sono i piedi. Tutto si presta all’intercambiabilità, tutto è relativo, tutto si adegua al momento.

I costumi sono di Sandra Cardini e molto giocano sul contrasto tra le due coppie di esistenze. Il disegno luci è di Gianni Staropoli.

“Fratellina”, nella coralità del progetto e nel solco del percorso artistico della Compagnia messinese, assegna al teatro, e alle parole che ne impregnano l’aria, che ne arredano gli spazi, il compito di ragionare una volta di più sull’uomo e sul senso dell’esistenza.

Nell’indecifrabilità del reale, nella percezione distorta di un sé sempre più minuscolo e disumanizzato, nel tramestio di un mondo che ha smesso di ascoltare il silenzio, nella scelleratezza delle distanze, il teatro custodisce un orizzonte di speranza da puntare, disegna un volto da accarezzare, rompe gli argini finanche dei generi mentre sussurra all’orecchio di chi sa ancora sognare che si può sempre provare a raddrizzare la luna.

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