Dell’immortalità e dell’insensato desiderio di afferrarla

Anche quest’anno ai Magazzini del Sale non mancano i consueti appuntamenti con il teatro. Un ricco cartellone: il sabato spettacoli seguiti da momenti di condivisione, teatro per bambini, spettacoli in doppia replica e numerose produzioni. Il Teatro dei Naviganti di Mariapia Rizzo e Domenico Cucinotta continua, insomma, a essere un punto di riferimento per il pubblico messinese attento alla drammaturgia contemporanea e per coloro i quali, usufruendo dei laboratori, abbiano voglia di mettersi in gioco sul palcoscenico.

In scena lo scorso fine settimana “L’incredibile vita di Sophie Schöner” di e con Sabine Uitz, una produzione del Piccolo Centro di Produzione Artistica Casa Valle Sturara e Via Rosse.

Uno schermo sul fondale, tavolino, sedia, acqua. Sulle note di Chopin fa il suo ingresso Sabine Uitz, dentro agli abiti in bianco e nero di quella Sophie Schöner aspra nella cadenza tedesca, nondimeno amabile nel mettersi a nudo, con una spiccata propensione verso l’ironia, con la salvifica levità di chi approfondisce grevi questioni esistenziali.

C’è un prima per Sophie e, quel che più conta, c’è un dopo infinito che ha assunto i caratteri dell’eterno presente da quel lontano 1982 in cui a un talk show la donna apprese per la prima volta la notizia del club degli immortali. L’illuminazione, la salvezza negli occhi di una settantottenne che durante l’adolescenza già pensava al momento in cui sarebbe finito tutto, dondolando, allora, tra la fascinazione e la paura dell’ignoto.

Nata in Germania nel 1904, trascorsa un’infanzia felice e una vita da microbiologa dedita perlopiù alla ricerca, Sophie ai tempi del talk show aveva già sperimentato la vecchiaia, la solitudine e in un certo senso non se n’era troppo preoccupata.

Tornando indietro a quel giorno, la prospettiva d’una esistenza illimitata, per lei che destramente ancora adesso schiva la parola morte, è allettante. La prospettiva d’una esistenza illimitata da vecchia lo è un po’ meno.

I video esplicativi ai quali, per effetto delle luci, si mescola l’attrice, riferiscono dell’invecchiamento del corpo umano e d’una particolare specie di meduse che al contrario ringiovanisce e – quel che più occorrerebbe agli uomini – non pensa, non ha paura. Ché del resto l’eternità pare sia un concetto che non possa riguardare i mortali, esseri per natura distruggibili e scompaginati da un mondo emotivo che li riporta di continuo al passato mitizzato o li catapulta in un futuro più che mai incerto.

Lo spettacolo, che in alcuni passaggi e con estremo tatto non manca di coinvolgere il pubblico, si astiene dalle conclusioni cui non sono giunti i più grandi filosofi, tuttavia scorre sul filo delle domande che l’individuo dovrebbe porsi al cospetto d’una eventuale immortalità. Specie se il privilegio di restare è per pochi, e tutti gli altri vanno.

A una materia così vasta, così problematica, così passata a setaccio e paradossalmente così imperscrutabile spetterebbero di diritto secoli di trattazione. E sarebbe tutto oltremodo soporifero, per certi versi infecondo se il teatro non offrisse la possibilità di sorriderne, d’un sorriso riflessivo, talvolta persino amaro.

A Sabine Uitz, stuzzicata peraltro dai recenti sconvolgimenti dell’esistenza, il merito di aver dapprima concepito un progetto così ardimentoso e di averlo rovesciato sul palcoscenico poi, con notevole destrezza attoriale e altrettanta misura nel dosare gli ingredienti, nel soppesare financo le pause.

Dentro alla vecchia cartella di pelle di Sophie c’è presumibilmente il passato, c’è il segreto dell’immortalità, c’è il futuro che possiamo intuire e c’è molto di quel che non possiamo mai realmente sapere. Perché non siamo pronti, non siamo adatti.

In un’ora però, e dentro quel teatro ove tutto è possibile, sono sfumate alcune delle più ricorrenti paure, insieme al desiderio di cambiare le carte in tavola per barattare l’ignoto con l’ignoto, il futuro col presente, la morte vera con la morte che si sconta semplicemente vivendo, vivendo in eterno.

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