Caronte/Cariddi L’universo malato terminale sul quale danzare

Surclassati dal progresso e vittime di un tempo senza memoria, i miti sarebbero destinati a morire se l’arte, caparbiamente, non ne custodisse il ricordo. La natura bestiale dell’uomo riscoperta in una forma di teatro regolata dalle leggi della danza. Il linguaggio del corpo a presagire l’estinzione del genere umano, restituendone sul limitare della vita l’origine mitica. Una maniera di percepire il reale, di assorbire la provvisorietà con il corpo, sottraendo alla parola la tradizionale centralità dell’atto teatrale.
In scena al Teatro dei 3 Mestieri di Messina, nell’ambito della stagione “Radici per restare”, “Caronte/Cariddi” ha così indicato le coordinate di un percorso che intreccia danza e teatro, che insegue il gesto puro e scorge nella plasticità dei corpi una, seppur debole, opportunità di adattamento alla vita.
“Caronte …ad astratti furori” (ideazione e coreografia di Stellario Di Blasi, musiche di Yamamoto Kotzuga) è il rito propiziatorio all’alba di un destino, è il presagio dell’orrore, è quell’istante che precede il sacrificio e durante il quale non ci si rassegna mai abbastanza.
Caronte, cui presta il corpo Danilo Smedile, è la mente che sragiona prima di votarsi al martirio. Sono le prove generali di quello spettacolo che è stato cucito addosso al nocchiero dell’Ade, e già possiedono tutta quanta la tragicità del suo ruolo. Il folle tentativo di imparare ciò che non si apprende, ma si improvvisa. La lenta perdita del sé più vero, per assurgere a dimensione di mito. Lì si insinua il presente, impantanato nella solitudine, nel dolore, nella paura. Lì Caronte è un uomo come tanti, consegnato senza alcuna spiegazione all’infausto destino.
Non meno greve è la sorte di “Cariddi Mari nun ci n’è cchiù” (ideazione, coreografia e danza di Stellario Di Blasi, musiche di Marco Accardi e Giorgio Amodeo). A nulla serve avvinghiarsi all’ultima sacca di acqua. Tutto è perduto. Tutto possiede i segni del più arbitrario abbandono. Sui fondali innaturali si compie dunque il destino di un universo malato terminale. E negli occhi, nel corpo di Cariddi il mito rimane solo un ricordo lontano. Vittima e carnefice, l’uomo rinuncia definitivamente alla vita e lascia che l’azzurra linfa si sparga nell’unico grembo meritevole di contenerla: la terra.
Non v’è poesia e non v’è luce. Tutto è andato distrutto. Rimane così quell’unico straziante e folle gesto di recupero del passato, cui la danza e il teatro generosamente si prestano.

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