Al Vittorio Emanuele il dissidio di Raskol’nikov nel pregiato impianto registico di Sergio Rubini

“Ho ucciso semplicemente, per me stesso ho ucciso, per me solo, e che poi avrei beneficato qualcuno, o per la vita intera, come un ragno, avrei acchiappato tutti quanti alla mia ragnatela e a tutti avrei succhiato il sangue, questo a me, in quel momento, doveva essere indifferente!”.

Ebbene, Rodion Romanovič Raskol’nikov chiarisce nel delirio le teorie superomistiche che dapprima lo muovono e poi lo vessano, senza mai concedergli tregua. Un giovane perennemente in bilico tra la presunta superiorità e il lacerante disprezzo di sé; vittima, secondo Pier Paolo Pasolini, di una passione infantile edipica e minato dall’amore della madre e della sorella, le cui conseguenze sono quelle ben note: la sessuofobia, la freddezza sessuale e il sadismo. 

In “Delitto e castigo” di Fëdor Dostoevskij, apparso nel 1866, quando ancora il termine psicanalisi non era stato coniato, v’era già quel senso di doppiezza della psiche umana capace di agitare gli impulsi più irrazionali che suona come un invito ante litteram alle indagini freudiane delle singole parti costitutive di ciò che anima l’uomo. Scopo precipuo dell’adattamento di Sergio Rubini e Carla Cavalluzzi quello di mettere in scena un dissidio senza tempo, addentrandosi nei labirinti della coscienza mai prescindendo dalla dimensione letteraria, eppure concependo una riduzione che sulla diversa forma espressiva, congrua semanticamente, fosse in grado non già di adagiarsi piuttosto di rigenerarsi, senza mai perdere di vista il fine ultimo: la ricezione del destinatario. 

C’era un filo che non si spezzava sulla scena ed era quello che strettamente avvinghiava al testo gli attori, di rimando connettendo lo spettatore all’universo letterario da cui l’operazione tutta partiva e del quale a ogni piè sospinto se ne riconosceva l’illustre dignità. Fatto salvo il palese sforzo mnemonico di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio, entrambi attorialmente all’altezza del compito, i leggii e i fogli sparsi per terra, una volta assolta la loro funzione, quasi restituivano quella dimensione letteraria del teatro che troppo spesso si tende a trascurare. 

Lo spettacolo affrontava il tema della dualità e si concentrava pertanto sulla dimensione psicologica del protagonista. Per far ciò occorreva intervenire chirurgicamente sul testo e costruire un percorso narrativo alternativo, affinché in appena due ore potesse compiersi la parabola di un individuo complesso come  Raskol’nikov. Tutto a ciò era funzionale. In primis la duttilità dei due attori principali, il fulgore dei quali non adombrava comunque la decorosa prova di Francesco Bonomo e Francesca Pasquini, interpreti di più personaggi sulla scena; quindi il pregevole impianto registico di Rubini, che tradiva l’urgenza di cimentarsi con quella particolare dimensione drammatica e per molti versi kafkiana alla creazione della quale  contribuivano tutti gli strumenti espressivi. Rubini ha affidato alle luci, alle ombre e ai chiaroscuri di Luca Barbati l’evocazione di atmosfere quasi oniriche. Al simbolismo sussurrato si assoggettava così ogni elemento della scena, meticolosamente concepito e geometricamente disposto da Gregorio Botta. Gli abiti senza corpo che pendevano, che si agitavano, che ossessionavano. Richiamo esplicito alla folla che incombe sul destino di ciascun uomo, che pungola le ossessioni, che esaspera il caos di quelle stesse anime delle quali desidera ardentemente banchettare. 

Il tavolo della confessione rinviata ad aleggiare sulle teste dei personaggi e quello, a margine, dell’infima bettola entro il quale spargere tra un sorso e l’altro la disperazione. Quando il bere non genera allegria, ma lacrime e sofferenza. 

La dimensione sonora, curata da G.U.P. Alcaro, è elemento imprenscindibile dello spettacolo: il rumore dei passi a ratificare umane presenze, la chiave nella toppa, il lamento straziante della cavallina, l’accetta che squarcia il cranio, ogni fragore della mente umana che diventa voce metallica e straniante grazie all’uso dei microfoni. 

L’incubo alla cui creazione concorre l’allestimento tutto arriva allo spettatore in chiave amplificata quando il percorso di sofferenza dell’eroe dostoievskiano riesce a tradurre teatralmente la tensione convulsa e abbacinata della pagina, nella dilatazione del tempo allucinato della coscienza. Lì si insinua il tormento, eppure lì si trascura per un istante la visione più spiccatamente nichilistica della vita e si intravede quell’unico spiraglio, mediato dalla coscienza muliebre, di redenzione. 

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