La rilettura di Orwell in “Stanza 101: cosa resta di 1984”

Lo spettacolo prodotto da Il Teatro dei Naviganti in collaborazione con Perle di Vetro

Non era impresa facile trasporre “1984” di George Orwell per il teatro, senza tradirne la complessità, senza cadere nella semplificazione o in un’attualizzazione troppo didascalica. Tanto più che alla riscrittura hanno lavorato in tre: tre individualità, tre visioni del mondo, tre sensibilità diverse.

Eppure il risultato, in “Stanza 101: cosa resta di 1984”, esito della riscrittura di Orazio Berenato, Leonardo Mercadante e Chiara Trimarchi, andato in scena domenica ai Magazzini del Sale, mostra una sorprendente coerenza stilistica e una lettura profonda, rispettosa, capace di restituire il vigore disturbante del romanzo senza rinunciare a un linguaggio scenico provvisto di autonoma potenza espressiva.

Lo spettacolo muove da un assunto lecito, e quanto mai attuale: Orwell ha saputo guardare ben oltre la contingenza del suo tempo. La trama viene solo sfiorata, lasciando spazio piuttosto a una riflessione ampia e universale sull’insidioso avanzare del potere e sulla sua urgenza di consolidarsi attraverso il controllo delle masse.

Una scelta drammaturgica lucida che privilegia l’evocazione all’esposizione e denuncia, senza alcuna retorica, le inquietudini del nostro presente.

Un potere meno plateale di quello che nazionalizzava le masse al tempo del Nazismo, ma non per questo meno pervasivo o coercitivo. Un potere che agisce in modo subdolo, insinuandosi nei pensieri, nelle parole, nelle coscienze. E chiunque osi opporvisi, apertamente o meno, sembra condannato a un’abiura inevitabile, alla negazione dell’essenza personale più autentica.

Lo spettacolo restituisce con forza questa tensione, rendendo visibile il dramma interiore di chi resiste e, al tempo stesso, soccombe.

Winston e Julia, interpretati rispettivamente dai generosi Berenato e Trimarchi, incarnano con intensità, fin dalle prime battute, il dramma di due individui insofferenti ai condizionamenti del regime, portatori di sentimenti sani e fragili speranze, inevitabilmente destinati a infrangersi sotto il peso della repressione, della tortura fisica e psicologica.

La loro parabola discendente si consuma sotto lo sguardo complice di un pubblico che spia e plaude, che diventa parte integrante della crudele messinscena, alimentando la dimensione disturbante e straniante dell’intero apparato.

A dare ulteriore forza all’allestimento è la presenza, nei panni del crudele O’Brien, di Gabriele Casablanca, straordinario nell’uso del corpo, impeccabile nel modulare ritmo e intensità. La sua interpretazione mostra una notevole consapevolezza del linguaggio teatrale e una sensibilità rara nel percepire e appagare le esigenze registiche e drammaturgiche.

Il suo personaggio si staglia come presenza esterna e infida, tessendo con cura un climax ascendente di violenza che si risolverà in una totale distruzione.

Inizialmente O’Brien adotta il velo della persuasione, smontando con argomentazioni apparentemente logiche il valore stesso delle parole e perfino delle certezze matematiche. È un gesto metodico il suo: privare l’individuo del linguaggio significherà annientare ogni forma di ribellione. Perché si deve credere, per fede.

Anche la regia segue con coerenza il filo conduttore della narrazione, costruendo con rigore una progressione drammatica che accompagna lo spettatore nel lento ma inesorabile precipitare.

Si parte infatti da una quiete solo apparente, da una normalità incrinata appena dal presagio inquietante “Ci rivedremo là dove non c’è tenebra” fino a giungere alla piena materializzazione dell’incubo, oltre la soglia della temuta Stanza 101.

Ogni passaggio è calibrato, ogni segno scenico contribuisce a far emergere la claustrofobia e l’angoscia di un mondo dove anche le fobie diventano strumento di dominio.

La scenografia, ridotta all’essenziale come si confà al teatro che ha in testa Winston, diventa essa stessa congegno narrativo. Pochi elementi, scelti con cura, dominano la scena: oggetti simbolici che evocano la presenza intrusiva del Grande Fratello e assumono una funzione anticipatoria, presagendo gli eventi.

Sono segni che tradiscono l’asservimento collettivo, rivelando il ruolo infestante del marketing e della comunicazione come mezzi di controllo e omologazione all’interno del sistema totalitario.

Una scelta registica lucida, che affida alla sottrazione il compito di amplificare il senso di minaccia.

Il disegno luci, sobrio e calibrato, delinea intanto con precisione i confini tra i personaggi, marcandone le distanze. È una luce che non sempre illumina, ma spesso circoscrive, poi ineluttabilmente imprigiona.

Le personalità dei tre protagonisti sono delineate con precisione e gli interpreti dimostrano grande abilità nel dar loro corpo e voce. La lucidità disincantata di Julia e la fragilità inquieta di Winston si scontrano con il cinismo calcolato di O’Brien, in un triangolo drammatico denso di tensione.

I due amanti, progressivamente irretiti in un Gioca jouer perverso, vengono addestrati alla rinuncia del pensiero critico, all’odio come forma di disciplina, all’asservimento mascherato da perfezione. Una recitazione misurata ma potente, che dà piena espressione alla deriva interiore dei personaggi.

Particolarmente incisivi gli “a parte” di Winston, attraverso i quali il personaggio esprime con forza la propria incorruttibilità, la sua ostinata fermezza morale.

Non è la sopravvivenza il suo fine, ma la salvaguardia di quella umanità che gli consente di provare sentimenti, di custodire un’integrità del pensiero.

Questi momenti sospesi, quasi confessionali, spezzano la linearità dell’azione e restituiscono al pubblico la dimensione più profonda del conflitto: non tra individuo e sistema, ma tra essere e disumanizzazione.

Al termine del dramma, ciò che resta allo spettatore è un senso di impotenza profondo, viscerale. Non è più la distopia letteraria a inquietare, ma la sua brutale aderenza al reale.

La messinscena non concede scampo né consolazione: colpisce con violenza, costringe a riconoscere un potere che non reprime più apertamente, ma sussurra, seduce, si insinua persino sotto l’apparenza rassicurante della democrazia.

La democrazia. Una bolla di sapone, tra le tante che O’Brien continua a soffiare con apparente leggerezza. Simbolo di un’illusione di libertà ormai svuotata.

Mentre Julia e Winston sono già altrove. Fuori dalla scena e fuori dal tempo, dissolti nella rinuncia, nella sconfitta, forse nella dimenticanza. A suggellare, con beffarda grazia, la fine di ogni resistenza.

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