Il quadro miserevole della società 2.0 che scansa con un sorriso l’afflizione

“Siamo tra intimi”. Esordisce così Dario De Luca quando, dal palco allestito in occasione della manifestazione “Agosto…in Fiera”, scorge appena una decina di spettatori. Alle sue spalle una luna magnifica, su di lui luci che s’infrangono sui lustrini della camicia e lasciano presagire la piega raggiante che prenderà la serata. “Va pensiero che io ancora ti copro le spalle” è il secondo capitolo di una trilogia scritta da Giuseppe Vincenzi per l’attore Dario De Luca. Una produzione Scena Verticale, il centro culturale calabrese che si fregia dell’organizzazione del festival Primavera Di Teatri a Castrovillari. Sulla scorta di quel teatro canzone che deve tutto all’estro creativo e alla levatura artistica di Sandro Luporini e Giorgio Gaber, De Luca alterna per un’ora musica e cabaret, accompagnato da Paola Chiaia alla tastiera. Un Atto unico in sei quadri e canzoni durante il quale l’attore si dimena tra disgrazie personali e universali, tra casa e nazione, tra show e politica, indistinguibili peraltro.
Dalla premessa che distingue disoccupazione e inoccupazione alla forsennata compilazione del Curriculum Vitae, carente al punto da necessitare d’essere impinguato con le esperienze maturate nella vita precedente, si procede verso la triste realtà dell’Italia interinale in cui viviamo.
La professione di attore derisa, tanto più che esercitata in una regione del profondo Sud come la Calabria. Non rimane che accontentarsi di una carriera in TV, partendo dal gradino più basso, spettatore con il compito di applaudire, fino ad arrivare a occupare il trono di Uomini e Donne e assistere alle sfilate di pretendenti dai nomi à la page. Basterebbe questo a restituire il quadro miserevole di un Paese, eppure Dario De Luca ci mette dentro i colori della tecnologia che ci ha fagocitati, solo all’apparenza colmando i vuoti culturali di una società votata all’indicativo, fornendo piuttosto emoticons per esprimere emozioni che non si provano più.
En passant, l’ipocrisia alla quale ci si assuefà per quieto vivere. Quindi i rapporti di coppia e la libertà riconquistata quando si indossa nuovamente la maglia del libero, come Baresi e Scirea. Un mare di progetti e l’incapacità umana di realizzarli in solitudine. Lo spettacolo vira dunque sul dramma dell’italiano medio, quello che non sa più come si vota a sinistra, per poi abbandonarsi alle riflessioni spiccatamente leopardiane sulla vita. La salvezza in mano agli extraterrestri. Il sogno di una casa sulla luna ora che i partiti artificiali hanno decretato la morte della politica e sopravvivere, qui, diventa il compito più arduo. Senza iperboli e senza ampollosità da palcoscenico, Dario De Luca ha lasciato che il pubblico indossasse i suoi occhi per assistere al lacrimevole spettacolo della società 2.0 in cui nostro malgrado naufraghiamo. Il pregio che gli si riconosce è quello di averlo fatto con la leggerezza e l’immediatezza necessarie a rendere tutto meno indigesto. Ché ove si posano gli occhi abbozzando un sorriso si addolciscono persino le mostruosità del vivere.

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