Non è la penna del romanziere, non è la perizia dello storico, non è l’attaccamento alla propria terra del trapiantato, non è nemmeno la preziosità d’uno stile di scrittura che omaggia la lingua italiana adeguatamente collocata nel tempo e nello spazio.
“La fata e la lupa” (ed. Nulla die), terzo romanzo di Gerardo Rizzo, è tutte queste cose insieme. È ancora una volta un atto d’amore nei confronti di quella Messina che non c’è più e che, con discrezione, affiora dalle pagine. Ora attraverso uno scorcio di paesaggio, ora attraverso un piatto tipico, ora attraverso le espressioni specifiche dei personaggi, i modi di fare, le visioni che il luogo ingenera.
Nulla di tutto ciò appesantisce minimamente l’intreccio che contraddistingue il genere. Il giallo che si delinea a partire dalla scomparsa del notaio Girasella, e che si nutre d’una intricata e coerente matassa, frutto peraltro di grande destrezza narrativa, non abdica infatti all’inchiesta vera e propria per cedere il passo alle note di testa del romanzo che sono i profumi della terra. Questi, semmai, permeano le parole, si insinuano nelle descrizioni dei paesaggi, fanno capolino insieme alla verità, talora ingannano come sa ingannare il reale. Del resto “Messina è la città dove niente è come sembra”. Ed è a questo inconfutabile assioma che si riallaccia il titolo del romanzo: due illusioni ottiche sullo Stretto, generate da altrettanti fenomeni atmosferici, alle quali sembra essersi allineata la vita dentro i perimetri cittadini.
Una vita che non si sarebbe scrutata con occhi altrettanto vigili se l’autore non avesse fatto ricorso a un espediente letterario che tramuta in asso nella manica la propria esperienza quotidiana: il delegato di Pubblica Sicurezza Edoardo Baldassa, veneto.
Con precisione chirurgica, perfetta nei tempi e scanzonata nei modi, Gerardo Rizzo ci consegna un’inchiesta sull’uomo che procede parallelamente a quella del poliziotto. E Baldassa è un personaggio delizioso, di quelli che ti si incollano davanti agli occhi, quelli sui quali la Rai imbastisce sceneggiati. Baldassa, “per motivi che a lui stesso erano poco chiari, uno contento della vita che faceva”, è un essere umano e, come tale, possiede pregi e difetti. Ma i difetti sono di quella specifica categoria che affascina e il suo più grande pregio è l’apertura a quel mondo nuovo che dapprima sapeva di confino e poi, pian piano, ha cominciato a profumare di casa.
Sfilano inoltre, insieme a lui, su quel fazzoletto di terra che affaccia sul mare, un gran numero di individui, molti dei quali provvisti di grande charme documentaristico. Per ciascuno l’autore ritaglia uno spazio più o meno ingente. Sono comunque tessere, meticolosamente cercate e trovate, che ricompongono il puzzle coprotagonista del romanzo: lo scenario. Più precisamente Messina tra il 1888 e il 1889.
Dalla toponomastica alle tradizioni, dai mestieri alla malvivenza, dal porto alle campagne, dal silenzio complice alla loquacità davanti a un piatto di maccheroni e un bicchiere di vino buono. Sono i chiaroscuri di quegli anni, di quella città. E sono i chiaroscuri, trasfigurati – sia chiaro – dal tempo, di questa città, anche adesso.
A Gerardo Rizzo il merito di averli scovati, da lontano, a dispetto dell’illusione ottica che sa essere la distanza, e di aver costruito attorno a loro una storia. Di quelle semplici, che eludono gli effetti speciali e che pure mirano dritto al cuore, con il loro prezioso, imprescindibile carico di umanità e poesia.