Serata al Palacultura all’insegna dei memorabili Mondiali di calcio del 1982
Un’icona nel panorama della narrazione che combina sapientemente grandi eventi, fatti, curiosità, aneddoti, sempre inquadrati nel contesto storico-sociale dentro cui hanno preso forma e acquisito quella consistenza che li rende perpetuamente avvincenti.
Federico Buffa ha conquistato gli spettatori del Palacultura di Messina in una serata all’insegna dei memorabili Mondiali di calcio del 1982.
Quelli, per intenderci, della finale dell’Italia dell’11 luglio contro la Germania Ovest al Santiago Bernabéu di Madrid. Quelli del 3-1 azzurro più famoso della storia, quelli dello scopone in aereo di Pertini e Zoff contro Causio e Bearzot.
Erano altri tempi, era proprio un altro mondo. E Federico Buffa, giornalista, telecronista sportivo, scrittore e persino avvocato, parte proprio da lontano per arrivare a quell’11 luglio lì.
Fa un giro lunghissimo che tu vorresti non finisse mai. Tanto è appassionante rivivere la storia attraverso la lente di ingrandimento dello sport e altrettanto è riviverla quando a raccontartela è Buffa. Da solo riempie la scena, sapientemente gioca con il ritmo, vanta tempi narrativi esatti dentro ai quali possiedono gigantesco vigore finanche i silenzi.
Così che la cronaca, alla quale Buffa si appresta peraltro col piglio disinvolto e beffardo che lo contraddistingue, varchi i confini della storia e approdi negli universi incantevoli dell’epica.
Dal tentativo di golpe in Spagna nel 1981, ripescando la finale del ’38 contro l’Ungheria, quella del ’70 col Brasile di Pelè, senza trascurare i colori, e le plurime gradazioni cromatiche, del mondo in cui Lech Walesa guidava Solidarność e al contempo riconosceva apertamente il ruolo del papa Giovanni Paolo II, ci si approssima al sogno di quell’estate indimenticabile che riuniva intere famiglie davanti ai televisori a tubo catodico.
“Italia Mundial” è dunque il racconto di un episodio in grandangolo della storia del calcio nazionale. Ma è pure uno straordinario spaccato della realtà sulla quale Federico Buffa ha imbastito il suo spettacolo a teatro, scortato al pianoforte dal maestro Alessandro Nidi e diretto da Marco Caronna. Il risultato, in termini puramente artistici oltreché didascalici, senza trascurare l’eco emotiva cui concorrono tutti gli strumenti espressivi messi in campo, è strabiliante.
E mentre si allestisce il palcoscenico destinato a ospitare Spagna ’82, il “nostro” mondiale se vogliamo, sfila una solenne galleria di personaggi. Loro hanno scritto la storia del calcio, a corroborare la rilevanza collettiva dello sport e l’attesa di quel fatidico istante in cui Nando Martellini sancì per ben tre volte la realizzazione del sogno.
Tra gli altri Zibì Boniek, per il quale non dovette essere certo una passeggiata essere polacco a quei tempi. Thomas N’Kono, portiere di quel Camerun che si classificò secondo nel gruppo 1 a pari punti con l’Italia e venne eliminato per minor numero di reti segnate. Naturalmente Zico, Socrates, Falcão, Junior e Cerezo.
Poi l’obiettivo si chiude sulla nazionale. Con Bearzot che lascia a casa Pruzzo e convoca “Spadino”, Franco Selvaggi, che soprattutto scommette su Paolo Rossi. Pablito – si badi – era reduce dai due anni di squalifica ai quali la giustizia sportiva l’aveva condannato.
Con Claudio Gentile che, in occasione della gara contro i campioni del mondo in carica, dopo un girone eliminatorio superato a stento, doveva tenere bene a mente l’undicesimo comandamento: non fare girare Maradona.
Con Bruno Conti, il nettunese ambidestro che avrebbe dovuto giocare a baseball in America, che fuma un pacchetto di sigarette a notte e spartisce l’insonnia con Tardelli, il “Coyote” per eccellenza.
Con Bergomi che diventa “Zio”: giovanissimo d’età e adulto nelle fattezze.
Con Dino Zoff che è il portavoce dell’Italia durante il silenzio stampa dopo il deludente girone eliminatorio.
Con Franco Causio a supporto della squadra che sul finale rileva Tardelli.
Con Scirea e con tutti i campioni del mondo che dipingono ancora oggi un’Italia di lavoratori, di campioni del mondo che non dimenticavano cosa significasse scaricare bombole o fare l’operaio in fabbrica.
Capitolo a parte quello su Paolo Rossi. Dai tempi in cui andava da Prato a Firenze in lambretta, col padre, per guardare le partite della Fiorentina, a quelli di Neil Armstrong sulla luna, il 20 luglio 1969, quando suo nonno lo convinse che tutto, come asfaltare la strada fino alla luna, è praticamente possibile.
Dal sogno di quei mondiali all’ultimo incontro con Bearzot, che era già un pugno allo stomaco senza che il destino avesse ancora voltato le spalle anche a Pablito.
Perché è questa la vita: una successione di brevi sporadici attimi da suggellare. E poco altro. Ce lo rammenta Federico Buffa, senza mai scivolare nella retorica, men che meno nell’astuto incitamento dei sentimenti più nostalgici. Piuttosto cogliendo la poesia e la levità nascoste dietro la gravezza delle storie.
Lo sport, che per sua natura è già un allegorico microcosmo, diventa allora il mezzo precipuo per raccontare l’esistenza.
Anche per questo lo storytelling di Federico Buffa, benché io non ami utilizzare forestierismi, è molto più che una semplice narrazione sportiva. È un modo di costruire mondi su storie universali di sconfitte, di vittorie, di trasformazioni, di sfide, di sogni.
È la poesia di cui si ammanta il tempo andato. E che si riaccende in un urlo come quello di Tardelli. Nelle connessioni umane di due fumatori di pipa. In un sorriso indimenticabile come quello di Paolo Rossi nella magica estate del 1982.