Edipo, Due registi e due ambientazioni scenografiche per un classico intramontabile del teatro greco

L’indole di Sofocle, che rifiutava la rigidità eschilea e poneva l’accento sull’umanizzazione dei suoi personaggi, sta alla base del dittico di tragedie messe in scena ieri al teatro Vittorio Emanuele dalla Compagnia Glauco Mauri Roberto Sturno. La discesa agli Inferi di un Edipo straziato che assurge a metafora di un’umanità intera nel putrido contesto della peste prima e in terra straniera poi. Due registi e due ambientazioni scenografiche, unica l’inarrivabile traduzione di Dario Del Corno.
Nell’Edipo re, diretto da Andrea Baracco, si investiga sulla terribile epidemia che sta decimando la popolazione. L’agnizione da cui deriva il dramma non sorprende lo spettatore, già al corrente del mito, eppure lo scaraventa nella mente e nell’animo di un uomo fatto a pezzi dal suo destino, al quale Sofocle nega peraltro l’orizzonte di una eschilea redenzione. Il crimine, la colpa, la condanna. Un orrore che, stillato dalla verità, dissangua un Edipo al quale ha dato il volto della disperazione Roberto Sturno, padrone dei propri strumenti fisici come delle palpitazioni del proprio personaggio. Una presenza che si lascia leggere nella verità della sua azione, sorretta da un’inappuntabile grammatica recitativa e al contempo da quella autenticità di attore e di uomo.
Attorno a lui, il coro nei panni di un tetro Ivan Alovisio, mediatore nel conflitto che Edipo disputa col mondo e, ribaltata la situazione preesistente, con sé stesso; Creonte interpretato da un Roberto Manzi senza fronzoli a richiamare epoche passate e disinvolto nei suoi abiti di damerino dei giorni nostri; Giocasta, cui ha dato il volto l’attrice Elena Arvigo, suicidatasi lentamente sulla scena quando già Edipo non poteva vederla, in quel cammino che la strozzava predisposto per lei da un geniale Baracco. Dulcis in fundo, nell’Edipo re, Glauco Mauri a vestire, lui ottantaseienne, la malaugurante vecchiaia di Tiresia. Colosso della scena teatrale italiana, Mauri realizza da sempre, attraverso la potenza catalizzatrice dell’arte, quell’incontro umano con il pubblico che solo una recitazione pura, aliena da esibizioni e pose manierate può generare. C’è buio attorno a tutti loro, come buia è quella verità che sgorga dalla bocca dei personaggi trasversalmente illuminati. In mezzo l’acqua pestilenziale. E lì Edipo bagna la sua chioma arruffata, quasi a lavare via il dubbio che nella mente gli si insinua.
In Edipo a Colono, diretto da Glauco Mauri, irrompe la luce. Le tenebre permangono nell’animo di questo peccatore sul quale lo spettatore è indulgente, gli Dei mai. Ed è lo stesso Mauri, che la scena slancia sugli uomini e sulle cose, a interpretare questo Edipo cieco che dignitosamente si dimena non per trovare pace, tuttalpiù per non alimentare altra guerra. Antigone è Elena Arvigo; Teseo Giuliano Scarpinato; Mauro Mandolini Creonte. Ciascuno, tra gli altri, è al contempo uomo e coro incappucciato. Glauco Mauri è il demiurgo che plasma l’evento scenico, che lascia dovunque la sua impronta, che convoca i molteplici codici della teatralità perché partecipino a un lavoro composito e contestualmente organico.
Alle prese con un classico intramontabile, negli Edipi di Sofocle, Baracco e Mauri non hanno tradito la drammaturgia per renderla appetibile. Hanno semmai fornito allo spettatore quella lente di ingrandimento utile a decifrare i concetti universali che si celano dietro i grandi capolavori del teatro greco. Il lavoro compiuto anela all’immortalità di un palcoscenico che, mediante il ciclico riprodursi di eventi e azioni umane, offre sempre nuove prospettive esistenziali. Tanto più sublimate quanto più un demiurgo è capace di giocare con gli elementi e gli stili in quel territorio sconfinato di esperienze artistiche che il teatro può, ancora oggi, contenere.

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