Al Teatro dei 3 mestieri Donatella Venuti interpreta l’incantesimo di Frida Kalo

Trae ispirazione dal racconto “L’incantesimo di Frida K.” di Kate Braverman, veste i panni dell’artista messicana, quindi lascia zampillare il getto infinito dei più cupi abissi, non pone argini al dolore, muta semmai in parole quel percorso senza ritorno che s’arresta solo innanzi alla morte. Un viaggio, dunque, quello che Donatella Venuti compie nella mente di Frida Kahlo, inconsapevolmente votata al martirio in qualità dapprima di donna poi di inferma. In quello sprazzo di vita che una sorte beffarda le ha assegnato ed entro cui l’arte, come talora accade, si mescola al tormento, per dare un senso finanche alla più improbabile delle realtà.

Ché non era surrealismo la deformità del vivere che Frida dipingeva. Ché l’esistenza, certa esistenza, è di per sé una stortura. Ché si può persino nascere nella pioggia e nella pioggia morire, sfidando vivendo la forza di gravità, navigando senza sosta e senza meta, rimpiangendo la morte per un soffio scampata e intanto amando la vita. Ci sono esistenze più disgraziate di altre. E ci sono menti, corpi che mancano all’appuntamento con il conformismo più rassicurante. Lì, in quell’anfratto di conturbante eccentricità, giace senza mezzi termini il genio.

Su uno specchio Frida guardava la sua immagine riflessa, immobile su quel letto dove non le mancava il tempo di congedare i sogni, e intanto assegnava all’arte l’arduo compito di trasfigurare il dolore. Sempre del resto ci si prepara a qualcosa che non accade. Da sempre la vita impone regole che essa per prima non rispetta. Ci si difende con il cinismo, se si conserva un briciolo di ingenuità. Con la trasgressione, se si ha coraggio. Con l’invenzione, infine, se persiste il desiderio di confezionare quell’universo che si è negato.

Frida, nel proprio universo, è moglie, è amante, è madre. Tutte finzioni nell’ambito del medesimo gioco che la sua mente crea semplicemente per resistere. Metafora, questa, di un copione comune a quasi tutte le donne cui la società impone d’essere “normali”. In quel che Frida sussurra, urla c’è però una così triste consapevolezza delle cose da trasformare in liberazione la morte. L’orrore resta sulle sue tele, come sul corpo giacciono le ferite. Con la sola, tuttavia sostanziale, differenza che il corpo muore e l’arte resta. In costante mimesi con le note di Arcadio Lombardo, spetta a Donatella Venuti assegnare dapprima alla scrittura poi alla sua stessa voce, il dolce commiato di Frida Kahlo nell’istante del trapasso. L’ultimo addio a quella terra del dolore ove “Navigare necesse est, vivere non est necesse”.

E con l’ultimo viaggio dell’artista messicana, nel drammatico monologo “Frida Kahlo. Io sono una donna d’acqua” scritto e interpretato da Donatella Venuti, si prosegue con la stagione estiva al Teatro dei 3 mestieri di via Roccamotore. Prossimo appuntamento il 13 luglio, con “Alfa e Omega”, due tragiche eroine archetipo di una umanità in parossistica migrazione senza meta sgorgate dalla penna di Maria Milasi e Domenico Loddo.

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