Una vera e propria riscrittura di quel testo che Pirandello aveva destinato a Ruggero Ruggeri, la riduzione a un unico atto di novanta minuti e la legittima pretesa di cucirselo addosso, realizzano sulla scena l’omaggio al teatro dell’inarrivabile Carlo Cecchi, cui di fatto non mancano dottrina, estro, spregiudicatezza. L’Enrico IV fornisce a Cecchi, nella triplice veste di interprete, regista e curatore dell’adattamento, il pretesto per addentrarsi nei meandri del metateatro. Si parte dal tema della follia, tanto caro all’autore agrigentino, e si giunge alla rappresentazione della maschera, fortemente voluta e brillantemente indossata, contro quel mondo indigesto che sulla presunta verità ha impalcato meschinità e ipocrisie.
Così il finto Enrico IV, che la cavalcata ha preso solo a pretesto del suo progetto attoriale, risulta l’unico personaggio credibile sulla scena, quello grazie al quale l’arte surclassa la vita, l’immaginazione il reale. Il Maestro muove le fila di quell’universo dal quale solo la finzione può sottrarlo, inscena il proprio tragicomico spettacolo e sadicamente dirige i suoi attori, che da commedianti consumati in vita diventano improvvisati pagliacci sulla scena. La farsa non esclude la drammaticità del vivere di questo saggio uomo che ha scelto la ricreativa strada della finzione, come del resto non priva lo spettatore del filosofeggiare tipico della letteratura pirandelliana, solo sfrondato e linguisticamente attualizzato. Le asperità della vita compiono la loro parabola ascendente attraverso quella messinscena che Cecchi e L’Enrico IV esigono perfetta. Un omaggio al teatro e contestualmente una rivincita sulla vita, cui contribuiscono il fulgore d’un cast d’eccezione, scene, costumi e luci. Mentre dagli anfratti della più sagace ironia sbuca il disequilibrio di un mondo vuoto e falso. Falso come non riuscirebbe d’essere neppure alla più riuscita messinscena.