La sdrammatizzazione di un delitto tra le musiche di Pupo, Little Tony e Iglesias

A conferma della cura e della professionalità con le quali Giovanni Maria Currò e Mauro Failla articolano un cartellone che guarda con coraggio al variegato panorama degli spettatori, è andata ieri in scena al Clan Off di Messina “Virginedda addurata”, un breve viaggio nella mente di Santa Rosalia, cui neppure la dimora fuori mano ha mai risparmiato le imperiture disarmonie della vita. La drammaturgia di Giuseppina Torregrossa trae spunto da un fatto di cronaca, eppure prosegue lungo le traiettorie del pensiero di una Santa eremita che all’efferatezza di un delitto giunge attraverso l’esclusivo bagaglio di preghiere, lacrime, meschinità che vittime e carnefici, a scopi puramente utilitaristici, hanno riempito per lei.
Marito e amante uccidono la moglie, incinta di nove mesi. Al cospetto della Virginedda addurata sfilano dapprima le figure femminili di tre diverse generazioni, poi finanche l’intrusa. E ciascuna ha le proprie preghiere, ciascuna la propria parziale visione delle cose. Spetta a una altrettanto umana Rosalia, in chiave rivisitata, tirare le fila del male, individuarne le dinamiche, finanche dissotterrarne le radici. “Riderà” di Little Tony alleggerisce l’ingresso in scena di questa Santa che fuma, mangia cornetti e agogna momenti di perfetta solitudine. “L’amore non può essere una cosa tinta” è la sintesi dei pensieri di una donna che non trova la forza per sottrarsi alla violenza. A lei non servono i consigli della figlia, non servono quelli della madre. Lei che piuttosto supplica Santa Rosalia di fermare con ogni mezzo il marito, di non farlo andare via. E se “iddu non ti voli” pazienza. Non v’è luce e vita oltre la porta della sua prigione. Tra una sortita e l’altra le sonorità leggere di brani come “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo e “Gelato al cioccolato” di Pupo. Superlativa la performance della Santa sulle note di “Se mi lasci non vale” di Julio Iglesias, a spargere acqua e non fuoco sulle ponderosità della vita. Sfila innanzi a lei anche l’amante, sulla bocca della quale l’orco Giuseppe diventa l’agnellino Peppuccio. Da un lato il relativismo nella concezione di Wittgenstein, dall’altro la sempiterna regola del lupo che mangia chi pecora si fa. Quattro donne, ciascuna nei propri panni, e quattro confessioni, quattro suppliche, quattro angolazioni a effigiare un’umanità tristemente smarrita che mescola sacro e profano, che cerca al cielo le risposte terrene, che neppure i Santi più possono aiutare. C’è tutto un gioco di iperboli nella regia di Nicola Alberto Orofino. E lì risiedono le assurdità e le insensatezze di un mondo alla deriva cui la grazia del teatro, senza troppi manierismi, dà voce. Alle attrici Francesca Vitale ed Egle Doria il merito di aver reso plausibile l’incredibilità delle donne sulla scena, vere tuttavia come vero è ciò che da sempre sulla terra accade.

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