Dapprima abbigliata di mare, quindi nuda di acqua ma colma di candore e di sé. La terra a ospitarla, poi a ingabbiarla, infine a sputarla. E il mare ancora ad avvolgerla, a cullarla, fino a nuova terra, nuovo scompiglio, nuova vita. Danae al mare guarda. Ché solo il mare, instabile nel suo umore, può adeguatamente tradurre i moti dell’animo umano. Ché il mare è forte. E salva, genera, conforta. La terra può invece essere arida. Come aridi sanno essere gli uomini che la calpestano, senza eccezione alcuna. Si tratti finanche di un padre e di una madre, al quale una figlia elemosina amore ma dai quali urge ineluttabilmente fuggire, per vivere. Un palazzo reale che diventa prigione, la famiglia il peggior carceriere. Mentre Danae è uno spirito libero che corre, corre, corre. E danza. A respirare libertà. A scoprire i colori, i profumi di una natura che non è mai la stessa. A provare meraviglia, prima che il mondo si disveli in tutte le sue innaturali atrocità.
Un preludio, quattro movimenti, una fuga costituiscono la trama musicale dell’esistenza di Danae. Sono il suo peregrinare sulla terra, ove si avvicendano le stagioni e, insieme a esse, i cicli della vita. Sono le note che si mescolano agli assoli e ai silenzi dell’anima, che accompagnano le parole di una partitura drammaturgica già per sua natura armonica. Danae, al sopraggiungere dell’autunno, è prigioniera di un mondo che trabocca di regole, pregiudizi, impassibilità. Lei che insegue libertà, imparzialità, compassione. Danae sa ascoltarsi, sa mettersi in discussione, sa percepirsi come “piccola fanciulla senza senso” e subito dopo diventare donna, forte e fertile. Dall’acqua è venuta, prima che fosse partorita, all’acqua va, per naufragare, e dall’acqua è ingravidata d’una ribellione che è dissenso. Danae è esule, indigente, orfana, madre. Ed è metafora di un universo femminile che lotta ogni giorno per affermare quel po’ di sé utile a sopravvivere. Il naufragio è per lei rivendicazione d’un diritto: quello d’essere, prima ancora che esistere. È l’urlo liberatorio che rompe gli argini della costruzione, ora che il caos è conclamato e l’ordine è soltanto un’illusione.
Partendo dal celebre frammento del poeta greco Simonide di Ceo, “Il lamento di Danae”, Auretta Sterrantino ha consegnato al teatro, e alla natura, pagine e pagine di lacrime, sangue, vita. Una drammaturgia che se da un lato palesa la profonda conoscenza di quel mondo classico che partoriva miti senza tempo, dall’altro è il manifesto di un altrettanto profondo sentire, in termini squisitamente sensoriali. Auretta Sterrantino sente Danae, la vive tra le pieghe della scrittura, quindi la libera. Per affidarla alla voce e al corpo di una Marialaura Ardizzone inappuntabile come un metronomo nel tradurre, con la voce e con il corpo tutto, la scansione ritmica del cuore.
Valeria Mendolia, che ha curato l’allestimento di “Naufragio”, ha scelto per lei un abito lungo, bianco, per metà a trama rada variamente lavorata, e per metà povero. Quasi a ricalcare il manicheismo esistenziale al quale prima o poi ci si rassegna. Le luci di Stefano Barbagallo, ora che “Naufragio” ha rinunciato alle soluzioni naturali di quel Capo Rasocolmo che lo aveva ospitato al debutto, rivestono un ruolo essenziale in quell’arduo compito di proiettare lo spettatore verso spazi interminabili e allo stesso tempo trattenerlo, non lasciarlo vagare troppo. Dulcis in fundo la musica, che nella location reverberata di Santa Maria Alemanna è affidata unicamente al pianoforte, per il quale Filippo La Marca ha composto ed eseguito la partitura. Non la pedissequa traduzione degli stati d’animo della protagonista, semmai il movimento inarrestabile della vita, che mai si piega all’uomo.
È questa combinazione di elementi a fare di “Naufragio” uno spettacolo entro cui le onde del mare sembrano ergersi sulla terra, per poi inondarla, purificarla e inondarla ancora. All’infinito. Nel ciclo di vita perenne che ricalca l’umano vagabondare.
QuasiAnonimaProduzioni, nel solco di quella Resistenza cui mai rinuncerebbe la rassegna Atto Unico, prosegue così il suo cammino verso un mondo possibile tutto ancora da costruire. Sondando anche stavolta il libero arbitrio e il suo esercizio. Sondando i fondali di quel mare interiore in cui quotidianamente naufraghiamo.