L’urgenza di ottenere il riconoscimento dalla massa per esistere, con un pugno di like

Prendere per il bavero l’uomo è l’intento che manifestamente muove Lelio Naccari. Farlo con grazia e con pregevole disinvoltura dipende però, oltre che dalla sua scrittura e dalla sua stessa impronta registica, da una combinazione armonica di ingegnosità: le scenografie digitali di Vincio Siracusano, le musiche dal vivo originali di Dario Naccari, la presenza sulla scena della ballerina Tamara Cutugno, la grafica e l’illustrazione di Claudio Naccari. È questo un teatro che si nutre della contaminazione, che mescola appunto la costruzione a freddo delle immagini tecnologiche alla materialità calda dell’attore sulla scena. L’effetto è strabiliante. Ché sono forme e inusitate possibilità offerte all’estro per confezionare una dimensione tutta nuova, un’autentica sospensione dalla realtà.
“Famoso. Per un pugno di like”, andato in scena alla Laudamo nell’ambito della rassegna Show Off, risponde così al bisogno di gettare uno sguardo lucido sulle cose e di farlo, però, senza alcun imbarazzo. Senza la pretesa di giudizio. Senza il peso di alcuna responsabilità.
Si discetta pertanto sulle umane miserie, su un pianeta terra che diventa avanspettacolo per chi si limita a osservarlo da una prospettiva altra.
Il singolo si è lasciato sopraffare dalla moltitudine, per rimanere solo e senza un metro personale di giudizio. Con l’urgenza semmai di ottenere il riconoscimento dalla massa, con la consapevolezza ben più grave di esistere solo attraverso gli altri. Non ci si salva, nel mondo 2.0, da soli. E non v’è fede che possa schiudere orizzonti spirituali. Come non v’è alcuna certezza della meta, alla fine del viaggio.
Chi siamo quando nessuno ci vede?” è il mesto quesito che ci si pone quando si prende coscienza di non poter essere nella trasparenza. Urge pertanto la formula che costruisca l’identità, a suon di parole, meglio se poche e maiuscole, che possano attirare like. I silenzi ora fanno orrore. I silenzi schiudono le porte al mistero, e il mistero fa paura. Elemosinare amore a un mondo che non si ama è un paradosso, ma è il solo rimedio possibile al bisogno di esistere. Ci si affida finanche ai consigli di Gesù Cristo, che sembra Paride Acacia ma non lo è, ma pure lui non è che ben si orienti su questa terra. Tant’è che blatera parole senza senso, non crede negli altri, ripone fiducia solo in sé stesso e non disdegna la solitudine. Il libero arbitrio spappolato tra un social e l’altro, dove chiunque può scialacquare parole. Il libero arbitrio nel voto a Berlusconi, nel programma in vista delle elezioni a suon di passi più lunghi della gamba, nella possibilità di pascolare liberamente sul pianeta o in quella di entrare in bagno e sparire.
Gli incontri umani diventano scontri: un padre e un figlio, il signor Rossi e il Buzzurrus. Poche parole, de visu. Ché fuori dal mondo virtuale la comunicazione è praticamente impossibile. Sullo sfondo Messina. Ove servisse dare un nome al caos. Tutti annaspano, annegano. Tutti hanno la loro “vita di merda”. E nel caso non ne avessero una o non fosse abbastanza “dimerda” ci penserebbe la Famoso corporation a compiere il resto dell’opera. Una carrellata di pochezza insomma. Ma a teatro anche la pochezza può avere il suo momento di gloria. Ragionare sull’uomo senza darlo esplicitamente a vedere e usufruendo della stessa tecnologia che l’ha risucchiato è un metodo senz’altro vincente. A Lelio Naccari il merito di averlo sperimentato, paradossalmente se vogliamo, nell’unica dimora della vita vera che resta: il teatro.

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