Appena una sedia e un leggio. E in quel minimalismo della scena zampilla la parola, che ipnotizza, allieta e scuote. Ora compunto ora canzonatorio, Pierluigi Tortora racconta di una Napoli sguaiata, per certi versi irragionevole, sgraziata, prepotentemente vera. I versi sono quelli degli autori che della lingua più sfacciata ne hanno fatto letteratura. Da “Lassamme fa’ a Dio” di Salvatore Di Giacomo che scaraventa in Piazza Dante il Padre Eterno e San Pietro all’umanità di chi si affanna per un riscatto sociale al tempo della prima guerra mondiale tra le strofe di “O don Nicola”, alla morte bianca di un muratore in “Fravecature” di Raffaele Viviani. L’atmosfera è al contempo onirica e reale. Il dialetto partenopeo ha il pregio di rivestirla d’una musicalità che sulla cantata dei pastori tira le fila di quel mondo piccolo e rumoroso che percorre le dicotomie d’una società che è sempre la stessa.
Pierluigi Tortora modula la voce in maniera tale da farla aderire ai versi, quasi nessun’altra lettura fosse possibile. Passati in rassegna gli ultimi, i disgraziati filtrati dagli occhi e dal cuore dei poeti, tocca alla piccola borghesia richiamare l’ingegnosità di chi forza la mano sulle cose, sul destino, su quella realtà che, nuda e cruda, un immenso Eduardo De Filippo ha messo su carta e portato sulla scena. “0 rraù”, “A povere ‘e pesielle”, “O D.D.T.”, “L’enemì”, avendo in mente il tipo di popolana napoletana che usa termini a lei inconsueti, storpiandoli, troncandoli. E sono scampoli de “Le industrie di guerra”, a richiamare quegli stessi personaggi che popolavano il teatro di De Filippo. Tra le altre, “L’imputata”, ove la cozza accusata d’aver cagionato l’epidemia colerica del 1973, teneva il discorso a sua discolpa, finanche sostenendo che “chelll c’arriva, ‘a cozzeca se mangia: si arriva mmerda, arriva dall’esterno”. Una massima senza tempo.
Quindi “S’è araputa a fenesta”, quando Eduardo De Filippo immaginava di stringere amicizia con una Morte che pareva Sant’Anna, gentile, simpatica, amorevole. E “Io vulesse truva’ pace”, sul limitare degli anni, mentre attorno era solo affanno e la morte diventava un orizzonte placido da mirare.
Dulcis in fundo, “A livella” di Totò, metafora esistenziale dell’inutilità innanzi alla comune ultima destinazione. Si spengono allora le luci, in sottofondo un paio di note, poi il silenzio, poi ancora gli applausi degli spettatori ai Magazzini del Sale. Nell’aria i volti, le case, tutta Napoli. E la filosofia ironica di un vivere destinato pur sempre a finire.