Gran bel lavoro del regista Walter Manfrè con la masterclass che al Clan Off teatro ha messo in scena “Interrogatorio a Maria” di Giovanni Testori, frutto di un percorso di perfezionamento incentrato su quel “teatro di persona”, proprio del regista messinese, che si pone come fine ultimo quello di scandagliare l’animo umano, cogliendone le mille sfaccettature. Tredici allievi attori sulla scena e un testo potente attraverso il quale la storia di Maria di Nazareth assurge a metafora dell’esistenza di tutte le donne, su questa terra che non risparmia sacrificio, dolore e morte.
Un alto contenuto umano nella drammaturgia di Testori, cui giova mettere al servizio voce e corpo per magnificarne la grazia, la semplicità del dettato e contestualmente la potenza evocativa. La sacralità qui si piega all’urgenza di veicolare un messaggio prima di tutto umano, costruendo gradatamente un’ultima e intima dimora di salvezza capace di accogliere l’anima. Maria viene dapprima invocata. C’è tutto un mondo cieco di coscienze alla deriva che la chiama e lei, quando arriva, lo stringe, gli porge la mano, gli consegna un drappo azzurro che non appartiene solo a lei ma a tutto il genere umano. Cielo e acqua che accolgono, che dispiegano la loro bellezza, che spazzano via i colori tetri della vita, che circoscrivono gli spazi entro i quali vagano le creature sulla terra. Dodici anime sulla scena e lei, a dare un senso alla loro esistenza, a restituire il senso d’ogni nascita, carne dalla carne. Ogni vita è del resto effigie di tutte le vite e a ciascun essere appartiene, abbattute le barriere dell’io che generano isolamento e dolore senza consolazione. Oltre la violenza, il sangue, i chiodi, la croce; oltre quel Golgota che ha crocifisso un uomo e poi tutti, nei secoli a venire. Maria, nelle bocche di ogni donna, dà voce al proprio dolore di madre. E in quelle stesse bocche pone le più soavi speranze di vita. Il figlio vive al suo fianco e al fianco di tutte le anime che possono riconoscerne il disegno, l’entità. Il teatro sembra dunque la dimora opportuna per ratificarne la presenza e di ciò si convincono gli uomini e le donne sulla scena, grigi come grigi sono i loro indumenti, che vagano in quello spazio angusto della coscienza, ma che lì e non altrove recuperano il coraggio di urlare il dolore, per liberarsene. Cielo e acqua, prima che tutto finisca, si avvolgono. E il drappo azzurro che ha dato loro vita è nuovamente nelle mani di Maria, ora che, grazie a lei, le anime non sono più sole e s’alzano, per camminare l’una affianco all’altra, portando negli occhi la speranza. Il teatro voluto da Manfrè è senza orpelli, senza spettacolarità, affidato alla nuda presenza degli attori, cui è stato assegnato il compito non facile di restituire pregnanza al testo. Non v’è realtà da rappresentare, semmai realtà sulla quale riflettere. E a ciò si ricollega la scelta del regista di abbattere i confini del teatro e creare un luogo ove chi parla e chi tace, chi vive e chi osserva la vita fossero una cosa sola. Il risultato è davvero strabiliante. A Giovanni Maria Currò e Mauro Failla, che gestiscono lo spazio di via Trento e si occupano personalmente dei laboratori teatrali, il merito di aver affidato la masterclass a un regista che bada alla formazione umana dell’attore e lo costringe a misurarsi con la dimensione emotiva del suo ruolo sulla scena, prima ancora di lasciarlo diventare personaggio.