“La cena”, Il dramma è servito alla mensa di Walter Manfrè

Una tavola imbandita e ventisette commensali ai quali viene servito soltanto del vino rosso. A capotavola Andrea Tidona, il padre. Due posti vuoti. Un generale disagio a paralizzare i gesti degli spettatori, seduti lì, immobili, con il calice davanti a domandarsi se possono o meno bere.

I dialoghi che preludono alla cena, tra il padrone di casa e il maggiordomo Fangio, interpretato da un granitico Cristiano Marzio Penna, non allentano affatto la tensione, piuttosto l’amplificano. Sono del resto il preludio al dramma che di lì a poco si dispiega.

“La cena”, scritta da Giuseppe Manfridi su sollecitazione di Walter Manfrè, è una imprescindibile tappa del percorso registico di Manfrè a proposito del quale il critico Ugo Ronfani coniò l’espressione “teatro della persona”. Lo scombussolamento, in una parola, dei ruoli. Gli attori e il pubblico a mescolarsi, gli uni ad agire, nelle molteplici accezioni cui rimanda l’ăgĕre latino, l’altro impotente e muto spettatore di quanto accade.

L’ingresso della figlia (Chiara Condrò) e dell’uomo che l’accompagna (Stefano Skalkotos), quando la zuppa è già stata servita, rende prontamente l’idea delle guaste pregresse dinamiche familiari. Il sarcasmo del padre, i suoi giochini volti a umiliare il presunto malaccorto genero costituiscono la migliore ouverture all’umiliazione che attende i due giovani, incapaci di sottrarvisi per tempo.

La tavola da pranzo è di fatto il luogo del conflitto per antonomasia. E la famiglia il luogo figurato in cui meglio si accomodano le insicurezze, le frustrazioni, le nevrosi che fuori ci si affanna a imbavagliare. La famiglia di Manfridi è marcia fino al midollo. Ed è marcio, squallidamente incestuoso, l’amore paterno. Minate più e più volte le fondamenta della personalità di Giovanna, quell’amore si appresta ad assestare loro un ulteriore colpo. Quello definitivo? Non si sa. Certo è che in un’ora tutto accade e tutto può accadere, senza che dall’esterno vi si possa intervenire. In un climax ascendente di tensione monta la rabbia dei commensali, attori e spettatori. Gli uni miseri della loro incapacità di reazione, gli altri parimenti miseri dell’impossibilità di intervenire.

La cifra stilistica del lavoro di Walter Manfrè è appunto ravvisabile nell’abbattimento di quelle barriere che il teatro troppo spesso erige tra attori e pubblico. Qui non solo la quarta parete scompare, ma insieme a essa svanisce il concetto di teatro come spazio e si recupera la matrice greca che rimandava al vedere, allo spettacolo propriamente detto.

Il cast traduce alla lettera le intenzioni creative del regista e ciascun attore mette a frutto le doti fisiche, tecniche e psicologiche che possiede per interpretare il proprio ruolo. Le mani di Stefano Skalkotos sono quelle che erano richieste al personaggio, l’esile corpo di Chiara Condrò ne traduce il malessere e Andrea Tidona è il perfetto mefistofelico burattinaio di questa drammaturgia della disgregazione, del sadismo, dell’imbarazzo, ove le bassezze dell’animo umano si servono tra una portata e l’altra, ove l’eleganza della forma si infrange con la trascuratezza delle anime.

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