Non osano Scimone e Sframeli al cospetto di Luigi Pirandello

L’aspettativa nutrita dal pubblico, in merito a un eventuale allestimento che qualcosa aggiungesse alla più consolidata tradizione, comporta di fatto, a sipario calato, un’analisi critica particolarmente accurata dello spettacolo. La compagnia Scimone Sframeli gode di una fama ben ancorata alla cifra stilistica che la contraddistingue e le attese, tanto più che stavolta ci si addentrava nel macroscopico universo pirandelliano, erano naturalmente alte. Da qui le domande sull’urgenza e lo scopo dell’allestimento di “Sei”, il recente lavoro andato ieri in scena al teatro Vittorio Emanuele.

La complicata macchina drammaturgica messa in moto presumibilmente risponde al bisogno di adattare l’opera dello scrittore di Girgenti, che già nelle premesse perde parte del titolo originale, a una realtà protesa formalmente verso l’essenziale. Tant’è che il grosso lavoro compiuto da Spiro Scimone si concentra sulla parola, strattonata quanto si vuole ora dalla drammaticità della vicenda ora dall’ironia personale del drammaturgo messinese, ma pur sempre funzionale alla riuscita dello spettacolo e asciutta come ci si attendeva. A ciò è seguita, nel plausibile rispetto della struttura originaria, la riduzione del numero dei personaggi e l’eliminazione di qualche scena. I tempi erano del resto perfetti, giacché in un unico atto è stata restituita appieno l’esuberanza semantica dell’opera di Luigi Pirandello. Lì si inserisce la regia di Francesco Sframeli, coadiuvato nell’arduo compito da Roberto Bonaventura. E lì probabilmente ci si è astenuti dall’imprimere al lavoro quella direzione significativa e inattesa che ci si attendeva e che avrebbe reso senz’altro più chiare le intenzioni dei due artisti cui fa capo l’intero progetto

In scena il passaggio dalla persona al personaggio, esistenze parimenti misteriose e dotate di un’anima oltre che di quel corpo dapprima deputato all’esistenza poi alla rappresentazione teatrale di essa. Ciascuno col proprio dramma, ciascuno con la propria trama, tutti accomunati da quella pena del vivere che l’incomunicabilità esacerba. 

L’ingresso dei sei personaggi, dai palchi del teatrino congegnato da Lino Fiorito, è l’irruzione della realtà nel luogo deputato alla fantasia. Ad accoglierli la maldestra compagnia di cui è capocomico Scimone e che, nell’atto di opporre resistenza alle contingenze che vorrebbero l’estinzione del teatro, si dimena come sa tra i problemi tecnici e la refrattarietà attoriale al cambiamento. I gesti stessi degli artisti, in antitesi alla naturalezza dei personaggi che fanno capolino a teatro, sono ridondanti, artificiali, talora persino comici nell’enfasi della comunicazione verbale e non verbale cui per consuetudine gli attori si abbandonano. 

I personaggi sono al loro cospetto ben più credibili. A vestire i panni del padre è Sframeli ed è a lui che spetta trascinare la famiglia nel vortice del dramma da rappresentare. Una immaginaria linea di demarcazione separa queste anime che hanno scritto il loro copione vivendo dagli attori che dovrebbero recitarlo e che intanto vi assistono, coinvolti in crescendo ed empaticamente, sul finale, partecipi. 

Scimone e Sframeli si servono per l’occasione di un cast, costituito da Gianluca Cesale, Giulia Weber, Bruno Ricci, Francesco Natoli, Maria Silvia Greco, Michelangelo Maria Zanghì, Miriam Russo e Zoe Pernici, che si direbbe rispecchi le esigenze creative alla base del progetto. Tutti fanno il proprio dovere, adeguandosi con professionalità alla parte e assoggettandosi alla generale economia dell’allestimento. 

Il colpo di pistola del giovane suicida si inserisce, sui titoli di coda, nella linea di confine che separa attori e personaggi e interrompe la partita della comunicazione giocata dagli uni e dagli altri sul campo ove nessuno può dirsi vincitore e tutti risultano vinti dal medesimo dramma esistenziale. 

A margine, ciononostante per nulla trascurabile, il senso del teatro, per sua natura collante tra arte e vita, binomio imprenscindibile in una realtà che si presta alla spettacolarizzazione del più miserevole nulla. 

Sulla scorta delle premesse e dei singoli elementi presi in considerazione, dal misurato adattamento all’impronta registica equilibrata grazie alla quale Sframeli trova la giusta chiave di lettura del testo di Scimone, dalla scenografia sobria di Fiorito ai costumi informali di Sandra Cardini, alla concentrazione degli attori fortemente avvinghiati al proprio ruolo, si direbbe che tutto abbia funzionato. Eppure, nel perfetto movimento di tutti i meccanismi, qualcosa allo spettacolo deve essere mancata se nell’insieme non ha convinto e, in taluni passaggi, ha finanche annoiato. L’energia, la creatività, specie quando ci si accosta a uno dei testi più celebri di Pirandello, deve per forza di cose trasformarsi in emozione. Muoversi in punta di piedi può sembrare doveroso, ma non sempre paga. 

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