Quando l’estremo tentativo di “Cantare all’amore” si spegne nella rassegnazione

Il bianco di un abito da sposa modesto e quello di tre scalette Ikea dalle quali tre esseri palesemente inadatti alla vita superano le barriere dell’io e si apprestano a misurarsi, come su un ring, con il sentimento che più li mette a nudo: l’amore. Sullo sfondo la disperazione, ammantata ora di una fioca speranza ora di un desiderio giunto senza preavviso.
Il sorriso meccanicamente separato dai visi inclini alle lacrime, per buona sostanza solleticato. Nessun orizzonte possibile. Mentre il tentativo ultimo, dilettantesco, di cantare all’amore si spegne nella rassegnazione, nel disagio percepito, in una violenza.
Poggia verosimilmente su questa cupa realtà la pièce di e con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno, in scena ieri al teatro Dei 3 Mestieri.
All’attivo numerosi premi e riconoscimenti per un “Cantare all’amore” (produzione La Ballata dei Lenna, coproduzione Teatro Bottega degli Apocrifi, produzione esecutiva ACTI Teatri Indipendenti) che a mio avviso difetta del coraggio necessario ad affondare i colpi, durante i momenti più spiccatamente leggeri come e soprattutto in quelli meno digeribili. È mancata allo spettacolo la prepotenza con la quale si arriva allo spettatore, talora senza dire o senza dimenarsi troppo in quel perimetro di esistenza su cui spettava al regista mettere ordine.
Gradevole, sia ben inteso, “Cantare all’amore” è la miscela esplosiva di idee, molte delle quali buone, che però non è esplosa. È mancato l’affondo, l’audacia di sporcare e sporcarsi sulla scena, quella di incanalare la drammaturgia nel naviglio che più gli si confaceva, assoggettandola dall’alto.
Tu metti insieme una donna in procinto di convolare a nozze, per interesse, un’altra senza arte né parte a recitare il ruolo della sorella e un estraneo, malandato quanto si vuole, a scombinare le dinamiche del più infausto ménage familiare. Scegli giustamente di delimitare il campo d’azione della loro stravaganza stereotipata, di scortarli con la tecnica e di illuminarli o adombrarli all’occorrenza, di teatralizzarli in una sola parola. Ma arriva un momento, un improcrastinabile momento, in cui devi liberarli. Per darli in pasto allo spettatore. Ecco, quel momento è mancato. Come sono mancate, nel forsennato inseguimento dell’insieme, le sfumature che solo il particolare può restituire.
Alla giovane compagnia il merito tuttavia di aver eluso la banalità, pur muovendosi sul terreno abusato dei sentimenti. Quello di aver sorretto i fili di un progetto pregevole e genuino con i tralicci di un repertorio musicale fresco e adeguato all’insieme. Quello, infine, di aver colmato sulla scena alcuni di quei vuoti esistenziali dentro ai quali, nella vita, l’indifferenza scava e scava.

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