Tra vuciati e travagghiu, la vita di un siciliano a Milano

Chiusa con brio la prima parte della stagione “Radici per restare” al teatro Dei 3 Mestieri. In scena uno spettacolo che ben si è adattato allo spirito natalizio, spargendo in egual misura humor e quella sottile drammaticità che attraversa la vita.
Sulla scena Giorgio Rizzo e Marco Corrao, l’uno nella triplice veste di autore, regista e attore, l’altro, chitarra in mano, a scortare con le note il lungo viaggio di un meridionale trapiantato a Milano.
“Il cannolo di Calogero” è il cunto di una vita, è l’ottovolante su cui sale l’uomo quando coraggiosamente sceglie di viverla.
Una valigia di cartone e il cappotto del nonno, quello della prima guerra mondiale. Da un paesino della Sicilia di centocinquanta anime montane a Milano il passo è breve. Lì tuttavia, in quella colonia di meridionali e sotto un cielo che resta straniero, di coraggio ne occorre davvero tanto. Calogero ha dalla sua la freschezza, l’esuberanza propria dei giovani d’ogni tempo, la voglia di fare, quella di giocare. Un arrotino in bicicletta che alterna alla fatica la gaiezza di qualche incontro fugace con il gentil sesso, spregiudicato e libero come solo al Nord poteva esserlo in quegli anni.
Una carrellata di appetibili prede: Letizia, con lo strabismo di Venere; Francesca, che si ‘nnacava per una leggera zoppia; Adele riccia e serbaggiuna; Elena, toppi model che senza trucco pareva zia Concetta. E Teresa, con i suoi occhi ricci a illuminare il mondo, a ricordare l’aria di casa. Un caffè al bar dello sport, il matrimonio, un figlio, la morte. Ché la morte arriva sempre a distruggere tutto e, in quegli anni, la broncopolmonite di Teresa era un male incurabile. Malgrado ciò, la vita va avanti. E Calogero ha un figlio da crescere, con l’aiuto di quelle comunità che un tempo costituivano un’ulteriore famiglia, tra vuciati e travagghiu, tra una carrucola e l’altra da trasportare.
Lina arriva anni dopo ed è un diversivo, una donnona che sconvolge i sensi di Calogero ma che non è Teresa. Mentre “la vita scorre e le cose accadono. Non sono né belle né brutte. Sei tu a dare loro un senso”.
Calogero aveva trasformato il dolore in forza, la pasticceria del Sud e l’antica ricetta del cannolo in business. Aveva accolto i figli che nemmeno sapeva di avere e che gli si erano presentati innanzi quando Il cannolo di Calogero si era ormai ritagliato uno spazio significativo nel panorama dell’imprenditoria milanese.
Ma i figli spariscono, battono nuove strade. Non appartengono più a quella generazione fortemente avvinghiata alle proprie origini. Calogero coglie a piene mani l’ingratitudine e si appresta ad affrontare, da solo, quel che resta di una vita interamente vissuta.
Pregevole la versatilità di Giorgio Rizzo sulla scena e l’uso spregiudicato di un dialetto che assegna impercettibili sfumature di senso al racconto. Qualche passaggio avrebbe potuto essere trascurato, per scampare al pericolo di affaticare il pubblico. Ma al teatro Dei 3 Mestieri “Il cannolo di Calogero” era al suo debutto ufficiale e, a dispetto di quel pelo nell’uovo che faticando si può trovare, ha dato prova di funzionare, deliziando finanche i palati più fini, quelli che mai si abbandonano al riso facile e privo di significato.

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